domenica 23 novembre 2025

Immigrazione, natalità ed economia

 


Il movimento europeo della “remigrazione e riconquista”, oggi sostenuto da parti della destra e da una parte dell’opinione pubblica, nasce da problemi reali, ma li interpreta in modo parziale e propone soluzioni poco realistiche. Per capire perché queste proposte non funzionano, bisogna analizzare con precisione le cause strutturali che hanno portato l’Europa — e l’Italia in particolare — alla situazione attuale.

Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Italia ha vissuto un periodo di crescita economica e demografica: tra il 1946 e il 1960 si ha il boom delle nascite e la ricostruzione industriale. Manifattura e agricoltura richiedevano moltissima manodopera e la disponibilità di lavoro sosteneva naturalmente la natalità.

A partire dagli anni ’70-’80 iniziò invece una transizione profonda: il tasso di fecondità calò rapidamente fino a scendere sotto il livello di sostituzione generazionale (2,1 figli per donna). Mentre nascevano sempre meno bambini, aumentava l’aspettativa di vita. Il risultato è stato un Paese sempre più anziano, con un numero crescente di pensionati sostenuti da una popolazione attiva sempre più ridotta.

Oggi siamo nel pieno di questa crisi: l’Italia ha uno dei tassi di natalità più bassi al mondo (circa 1,2–1,3 figli per donna) e un rapido calo della popolazione in età lavorativa. Nonostante ciò, agricoltura, logistica, edilizia e alcuni settori industriali continuano ad avere bisogno di manodopera. È qui che entra in gioco la scelta europea, fatta dagli anni ’90 in poi: compensare il calo dei nati con l’immigrazione.

Ed è proprio qui che emerge la differenza decisiva.
L’immigrazione del passato — come quella degli italiani in America, in Belgio o in Svizzera — avveniva tra popolazioni che, pur diverse, condividevano un quadro culturale e religioso simile (cristianesimo o ebraismo). L’integrazione non era immediata, ma era possibile: nel giro di due o tre generazioni si creavano comunità pienamente integrate.

L’immigrazione contemporanea è profondamente diversa. Ma quando gli immigrati provengono da una cultura tribale è impensabile che essi si integrano, ma si aggregano e vivono in quartieri chiusi. Quindi la prima domanda che ci dobbiamo porre è: chi favoriamo nell’immigrazione, che popoli? La questione si aggrava quando l’immigrazione è caratterizzata da musulmani. Infatti l’immigrazione è una forma di jhad perché serve al processo di islamizzazione e di espansione dell’islam. Considerate che i musulmani praticano la poligamia, a fronte di una moglie ufficiali ne anno altre “sposate” solo religiosamente e con ogni donna fanno una media di 5 figli.  Figli che sosteniamo noi con la spesa sociale. Una parte significativa dei flussi proviene da paesi a maggioranza islamica, dove la struttura familiare, il modello sociale e la visione del rapporto tra religione e vita pubblica sono molto diversi e sono in contrasto con quelli europei. Dobbiamo constatare che:

  • molte comunità immigrate tendono a vivere in quartieri propri, non a mescolarsi;
  • i tassi di natalità sono molto più alti rispetto alle società europee;
  • la religione continua a essere un fattore identitario centrale;
  • l’integrazione culturale procede lentamente e spesso si ferma alla prima o seconda generazione.

È evidente che l’immigrazione di popolazioni numerose, culturalmente molto distanti e con tassi di natalità più elevati genera uno squilibrio strutturale tra una società europea che non fa più figli e comunità che mantengono ritmi demografici molto più alti.

In altre parole, la crisi non deriva semplicemente dall’immigrazione, ma da una denatalità autoindotta che ha reso l’Europa demograficamente fragile. Abbiamo anteposto il tempo libero, il consumo e l’individualismo alla costruzione di famiglie numerose. Abbiamo preferito proteggere il presente invece di costruire il futuro. Le generazioni precedenti, pur con più difficoltà economiche, accettavano sacrifici che oggi riteniamo eccessivi.

Il risultato è davanti ai nostri occhi: una società che invecchia rapidamente, che ha bisogno di lavoratori e che per colmare il vuoto si affida a flussi migratori in larga parte provenienti da contesti islamici. Flussi che, per motivi culturali e religiosi, non sempre si integrano facilmente.

La conseguenza è un duplice squilibrio:

  • demografico, perché gli europei fanno pochi figli mentre le comunità immigrate crescono;
  • culturale, perché l’identità europea si indebolisce mentre crescono identità parallele.

Per chi crede — cristiani o ebrei — la questione non è solo sociale ma anche spirituale: la natalità è una benedizione, una mitzvà, una vocazione. Rinunciare ai figli per timore economico o per non sacrificare il “tempo libero” significa privare la nostra civiltà della sua continuità.
La responsabilità ricade sia sulle coppie che potrebbero costruire famiglie numerose, sia sui genitori che non incoraggiano i propri figli a farlo. Non possiamo ragionare solo sul presente: il futuro si fonda sulle nuove generazioni. E senza bambini, nessuna società sopravvive, indipendentemente da quanta immigrazione riceva.

 


Lettera aperta agli antisionisti di destra– Parte IV

 


Dal IV–V secolo d.C., con la fine dell’Impero Romano d’Occidente (476), la penisola italiana entra in una lunga fase di frammentazione. Le strutture romane crollano e il territorio viene occupato da popolazioni diverse: latini romanizzati, Visigoti, Ostrogoti. Non esiste alcun “popolo italiano”; esistono gruppi distinti che convivono sotto ciò che resta dell’autorità romana prima e sotto regni romano-barbarici poi.

Nello stesso periodo, in Medio Oriente, in Terra d’Israele vive una componente stabile del popolo ebraico, sotto dominio romano e poi bizantino. Gli ebrei mantengono una forte identità religiosa, normativa e linguistica e restano un soggetto storico unitario sia nella terra d’origine sia nella diaspora, soprattutto babilonese.

VI–VIII secolo: Italia frammentata, continuità ebraica sotto nuovi imperi

Tra VI e VIII secolo l’Italia è ulteriormente divisa: dominio ostrogoto, parziale riconquista bizantina (Esarcato di Ravenna), invasione longobarda. Le identità diventano locali: romani d’Italia, longobardi, popolazioni miste. Nascono regni regionali e il papato assume un ruolo politico. Ancora nessuna idea di un’unica nazione italiana.

Nel Medio Oriente, nel frattempo, dopo la fase bizantina arriva la conquista arabo-islamica (VII secolo). Gli ebrei restano minoranza in Terra d’Israele — soprattutto in Galilea e Gerusalemme — mentre fioriscono grandi centri rabbinici in Babilonia, Persia ed Egitto. In questo periodo si sviluppano la Halakhah, le accademie rabbiniche e si fissa il Talmud babilonese, che consolida l’identità del popolo ebraico nel mondo.

IX–X secolo: l’Italia come mosaico di popoli; l’ebraismo come popolo unitario disperso

Tra IX e X secolo l’Italia è un mosaico di ducati longobardi, territori carolingi, principati locali e aree bizantine. In Sicilia si afferma anche una presenza araba. Le identità sono cittadine e regionali: romani, longobardi, “lombardi”, napoletani, siciliani, ecc. Il nome “Italia” ha solo un significato geografico, non politico né nazionale.

Il popolo ebraico, invece, vive in tre grandi aree:

  1. Terra d’Israele, con comunità piccole ma stabili;
  2. Il mondo islamico (Spagna, Nord Africa, Medio Oriente), dove spesso prospera;
  3. Le prime comunità in Europa cristiana (Francia, Germania).

Pur disperso, l’ebraismo mantiene una continuità culturale e religiosa: stessa Torah, stesso calendario, stessa liturgia. È un popolo senza Stato, ma non un popolo senza identità.

XI–XIII secolo: l’Italia dei Comuni; il popolo ebraico tra crociati e potenze islamiche

Tra XI e XIII secolo, in Italia esplodono i Comuni e le città-stato: Milano, Firenze, Pisa, Genova, Venezia. Coesistono Sacro Romano Impero, Stati della Chiesa, Regno di Sicilia. Non c’è alcuna unità politica e nessuna identità italiana condivisa; le identità sono cittadine: “fiorentini”, “veneziani”, “lombardi”.

In Terra d’Israele si alternano i crociati e poi le dinastie musulmane (Ayyubidi, Mamelucchi). Le comunità ebraiche vivono spesso tra tolleranza e persecuzioni, ma persistono a Gerusalemme, Hebron, Tiberiade, Safed. Parallelamente fioriscono grandi centri della cultura ebraica in Europa e nel mondo islamico (Rashi, Maimonide). Il popolo ebraico resta un’unica realtà culturale e religiosa, nonostante la dispersione.

XIV–XV secolo: Rinascimento italiano e rinascite ebraiche nel mondo ottomano

Durante XIV e XV secolo l’Italia è segnata da crisi (peste nera), guerre e successivamente dal Rinascimento. Nascono grandi Stati regionali come il Ducato di Milano, la Repubblica di Venezia, Firenze dei Medici, lo Stato Pontificio, il Regno di Napoli. Le identità sono regionali: toscani, lombardi, veneziani, napoletani. Non esiste una nazione italiana.

Nel Medio Oriente domina il Sultanato mamelucco; nel 1492 gli ebrei espulsi dalla Spagna si stabiliscono in gran numero nell’Impero Ottomano, inclusa Terra d’Israele. Nascono fiorenti comunità sefardite a Safed, Gerusalemme, Hebron. La continuità del popolo ebraico si rinnova e si rafforza.

XVI–XVII secolo: Italia politicamente divisa; ebraismo spiritualmente unito

Tra XVI e XVII secolo l’Italia è suddivisa tra domini spagnoli, asburgici, repubbliche indipendenti, ducati e lo Stato Pontificio. Non esiste uno Stato italiano né una lingua comune: si parlano volgari regionali. L’italianità è un concetto letterario, non nazionale.

Nel Medio Oriente l’Impero Ottomano controlla Terra d’Israele. Le comunità ebraiche — soprattutto Safed, Gerusalemme e Tiberiade — vivono una fase di rinascita mistica e culturale (la cabala di Safed). Nel resto del mondo, Polonia, Lituania, Impero Ottomano e anche alcune città italiane ospitano importanti comunità ebraiche. Torah, Shabbat, lingua ebraica e legame con Sion mantengono vivo un popolo unitario, pur senza Stato.

XVIII secolo – 1800: Italia divisa; popolo ebraico riconoscibile nel mondo

Alla vigilia dell’Ottocento l’Italia è ancora frammentata in una miriade di Stati: Savoia, Toscana, Stato Pontificio, Napoli, Venezia, Parma, Modena, ecc. Le conquiste napoleoniche ridisegnano i confini, ma ancora non esiste uno Stato italiano, né un popolo italiano nel senso moderno. L’identità nazionale nascerà solo nel XIX secolo con il Risorgimento.

In Terra d’Israele continua la presenza ebraica sotto dominio ottomano, con quartieri ebraici stabili a Gerusalemme, Safed, Hebron, Tiberiade. Parallelamente, l’Illuminismo e l’Emancipazione trasformano lo status degli ebrei in Europa. Nonostante la dispersione, il popolo ebraico rimane riconoscibile come nazione religiosa, culturale e storica, unita dalla Torah, dalla memoria condivisa e dal legame con la terra d’origine.

Conclusione e domanda chiave

Dunque, dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente fino al 1800, la penisola italiana non conobbe mai un popolo unico né uno Stato unitario. Esistevano molti popoli, molte lingue, molte culture e molti Stati diversi. L’Italia moderna è una costruzione politica recente. Al contrario, nello stesso arco di tempo, il popolo ebraico ha mantenuto una continuità sorprendente:

  • stessa fede,
  • stesso codice normativo,
  • stessa identità culturale,
  • stessa memoria storica,
  • stessa terra d’origine, pur essendo spesso dominato e disperso.

Da qui nasce la domanda inevitabile: Per quale motivo un’Italia — che per oltre un millennio non è mai esistita come popolo unico né come Stato — ha potuto rivendicare legittimamente un’unificazione nazionale, mentre agli ebrei, che sono sempre esistiti come popolo e come identità culturale legata alla stessa terra, si vorrebbe negare il diritto ad avere uno Stato proprio?

 

 

sabato 22 novembre 2025

Lettera aperta agli antisionisti di destra– Parte III

 

 

Gli ebrei hanno ucciso Gesù (accusa di Deicidio)

Sulla mia pagina FB, oggi nel 2025, molti conoscenti ed amici affermano che se gli ebrei hanno ucciso D-O (Gesù) è normale che possano fare un genocidio, cadendo così nell’inganno delle bugie antisemite. Ciò dimostra che il seme avvelenato seminato nei secoli, nonostante i chiarimenti storici e della Chiesa Cattolica continua a produrre il suo effetto.

Facciamo chiarezza.

Quando si affronta la questione secondo cui “i giudei avrebbero ucciso Gesù (D-o per i cristiani)”, è necessario dire subito una cosa: si tratta di una costruzione storicamente falsa.
La morte di Gesù avvenne tramite crocifissione, una pena tipicamente romana, riservata ai sovversivi politici e applicata esclusivamente dall’autorità imperiale.

Il responsabile giuridico dell’esecuzione fu Ponzio Pilato, prefetto romano della Giudea.
La condanna fu romana.
L’esecuzione fu romana.
E questo è un fatto storico solido, riconosciuto da tutti gli studiosi.

Nei Vangeli compare il ruolo di alcuni componenti dell’élite sacerdotale giudaica, che vedevano in Gesù una minaccia di natura religiosa o sociale. Ma non si parla mai di “tutti gli ebrei”.
Si fa riferimento a pochi membri del Sinedrio, una ristretta classe dirigente di Gerusalemme.
Il popolo ebraico nel suo complesso non fu coinvolto, né tantomeno consultato. Anzi, gli stessi testi evangelici descrivono folle ebraiche che ascoltavano Gesù e lo seguivano.

Va inoltre precisato che le autorità ebraiche non avevano alcun potere di infliggere la crocifissione, che era uno strumento romano. Potevano formulare accuse religiose interne, ma non emettere condanne capitali attraverso mezzi romani.
Dunque, il coinvolgimento ebraico, per come appare nei testi, è circoscritto a una élite locale, non all’intero popolo.

La posizione delle Chiese cristiane

Oggi le principali Chiese cristiane sono concordi nel respingere l’accusa di responsabilità collettiva.
Il Concilio Vaticano II, con il documento Nostra Aetate (1965), afferma in modo inequivocabile:

“Non si possono imputare agli Ebrei del tempo, né agli Ebrei di oggi, responsabilità per la morte di Gesù.”

Anche Giovanni Paolo II condannò con forza l’idea del “deicidio ebraico”, definendola una grave distorsione, priva di basi teologiche e fonte di antisemitismo.

Gli studi esegetici moderni confermano che l’espressione greca οἱ Ἰουδαῖοι, tradotta come “i Giudei”, nei Vangeli indica spesso le autorità religiose di Gerusalemme, non il popolo ebraico nel suo complesso.
Questa distinzione, chiara nella lingua antica, venne fraintesa e generalizzata nei secoli successivi.

Dal punto di vista ebraico, inoltre, non vi era alcun interesse nel far eliminare Gesù:

  • non era un avversario politico,
  • non minacciava la sicurezza nazionale,
  • e soprattutto il popolo ebraico non aveva il potere di infliggere la pena della crocifissione.

Nell’ebraismo Gesù è ricordato come un ebreo osservante, un maestro itinerante, non come un nemico del popolo.

Come nasce allora il mito del “deicidio”?

L’idea che “gli ebrei hanno ucciso Dio” non proviene dai testi evangelici ma dalle interpretazioni medievali, che alterarono il senso originario delle scritture.
Con il passare dei secoli, la lettura teologica medievale trasformò episodi narrati nei Vangeli in un’accusa contro l’intero popolo ebraico, creando uno dei pilastri dell’antisemitismo europeo.

A consolidare questa visione furono:

Padri della Chiesa

  • Giovanni Crisostomo (IV sec.), con le sue omelie Adversus Iudaeos, accusa gli ebrei di aver rifiutato e ucciso Cristo: un’opera destinata a segnare profondamente la mentalità medievale.
  • Sant’Ambrogio insiste sulla responsabilità ebraica, pur senza usare il termine “deicidio”.
  • Sant’Agostino descrive gli ebrei come “popolo testimone”, destinato all’umiliazione per non aver riconosciuto Gesù. Questa idea, pur non violenta nelle intenzioni, contribuì alla costruzione teologica del disprezzo.

Concili medievali

  • Concilio di Toledo (VI–VII sec.): introduce norme discriminatorie basandosi sulla presunta colpa ebraica.
  • Concilio Lateranense IV (1215): impone i segni distintivi agli ebrei, rafforzando l’idea che fossero “colpevoli” di un crimine religioso.

Teologi medievali

Autori come Pietro Crisologo, Pier Damiani, Bernardo di Chiaravalle e Tommaso d’Aquino, pur con sfumature diverse, contribuirono a mantenere viva e teologicamente rispettabile l’idea che gli ebrei fossero responsabili della morte di Cristo.

Predicatori popolari e teatro religioso

Le prediche pasquali, i drammi della Passione e le campagne dei crociati resero popolare la narrativa dei “deicidi”, trasformando la teoria in cultura di massa.
In queste rappresentazioni gli ebrei venivano messi in scena come carnefici brutali, alimentando pregiudizi radicati.

Papa Innocenzo III (XIII sec.)

Figura chiave nella definizione dottrinale.
Pur non sostenendo violenze dirette, affermò che gli ebrei erano “condannati da Dio alla schiavitù perpetua per il loro crimine contro Cristo”.
Fu la prima grande autorità papale a dare legittimazione formale a questa idea.

Il tardo Medioevo

Tra XIII e XV secolo, l’accusa diventa pensiero comune:

  • statuti cittadini vietano agli ebrei ruoli pubblici,
  • predicatori francescani e domenicani la diffondono,
  • l’arte medievale raffigura gli ebrei come assassini di Cristo.

A questo punto il “deicidio” non è più un’interpretazione, ma un dogma sociale.

Lettera aperta agli antisionisti di destra– Parte II

 

L’impero romano-introduzione

Roma e Gerusalemme

Quando mettiamo a confronto Roma e Gerusalemme, non stiamo semplicemente accostando due città antiche: stiamo osservando due idee opposte di comunità, potere e identità.

Roma nasce come un piccolo insediamento latino che, nel giro di pochi secoli, assorbe, conquista e unifica una miriade di popoli italici diversi: Etruschi, Sabini, Sanniti, Umbri, Veneti, Lucani, Celti. La sua missione storica diventa chiara fin dall’inizio: espandere, integrare, dominare. Roma forgia un progetto politico universale, in cui la cittadinanza non dipende dal sangue ma dall’appartenenza allo Stato. È una visione imperialista e inclusiva, che trasforma una città in un impero e un impero in un’identità.

Gerusalemme è esattamente il contrario.
Non nasce per unire popoli diversi, né per espandere confini. Diventa capitale con re Davide e custodisce il Tempio con re Salomone: il suo significato non è politico ma sacro. Gerusalemme è il centro religioso di un solo popolo — gli Ebrei — e il simbolo della loro alleanza con Dio. Non aspira a inglobare altre nazioni: aspira a preservare la propria. È una città che non definisce un impero, ma definisce un’identità spirituale.

Così, mentre Roma costruisce l’unità imponendola dall’alto,
Gerusalemme custodisce l’unità perché la riceve dall’Alto.

Il parallelismo tra le due città rivela quindi una verità fondamentale:
Roma rappresenta l’ambizione politica dell’universalità;
Gerusalemme rappresenta la radice religiosa della particolarità.

Due modelli opposti, due vocazioni diverse, due modi di concepire la storia degli uomini.

Nascita e sviluppo dell'impero

Roma comincia la sua storia tra il X e l’VIII secolo a.C. come un piccolo villaggio latino sulle rive del Tevere. In quel momento, mentre Roma muove i primi passi come insediamento locale, Israele è già un regno unificato sotto due figure storiche e fondative: Davide e Salomone (X secolo a.C.). Roma diventa una monarchia e solo in seguito, nel 509 a.C., si trasforma in Repubblica. Nello stesso arco di tempo, nel Vicino Oriente, il regno di Israele si era già diviso in due stati distinti:

  • Regno di Israele (Nord)
  • Regno di Giuda (Sud)

Il regno di Giuda sopravvive fino all’esilio babilonese del 586 a.C., un evento drammatico ma non definitivo.

Roma si espande, Israele resiste e ricostruisce

Tra il V e il IV secolo a.C., Roma entra in una fase di grande espansione nella penisola italiana: conquista Etruschi, Sanniti, Umbri, Celti e procede verso l’unificazione militare e politica dell’Italia. Nello stesso periodo, gli Ebrei ritornano dall’esilio e ricostruiscono il Secondo Tempio (516 a.C.). È l’epoca delle dominazioni persiana ed ellenistica, ma nonostante i poteri stranieri la comunità ebraica mantiene continuità culturale, religiosa e identitaria.

Due destini paralleli: un impero e un regno che risorge

Tra il III e il II secolo a.C., Roma conquista tutto il Mediterraneo: Cartagine, Grecia, Siria. Diventa una potenza imperiale. Contemporaneamente, nella storia ebraica si afferma la dinastia asmonea (descritta nei Libri dei Maccabei). A seguito della rivolta dei Maccabei, gli Ebrei riconquistano la sovranità e fondano lo Stato giudaico indipendente (140–63 a.C.). È un periodo di piena autonomia nazionale.

Roma diventa Impero, Israele mantiene identità

Tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. nasce l’Impero Romano. Nel 63 a.C., Roma conquista la Giudea (non “la Palestina”, denominazione successiva). Nonostante la dominazione romana, gli Ebrei mantengono la loro identità, la loro lingua, la loro legge e il loro Tempio. Nel 70 d.C., con l’Impero al suo apice sotto la dinastia flavia, Tito distrugge il Secondo Tempio. Ma questo non cancella il popolo ebraico: esso continua a vivere sia in Terra Santa sia nella diaspora.

Le rivolte e la continuità ebraica in Terra d’Israele

Tra il 132 e il 135 d.C., Roma reprime la rivolta di Bar Kokhba. La Giudea viene duramente colpita e molti Ebrei vengono dispersi. Tuttavia una parte significativa della popolazione ebraica rimane stabilmente in Galilea e in altre regioni della Terra d’Israele.

Tra il II e il IV secolo d.C., mentre l’Impero Romano raggiunge la sua massima estensione, la vita ebraica continua attivamente in Galilea, nel Golan, a Gerusalemme, a Lydda e a Tiberiade. Proprio in questo periodo viene redatta la Mishnah (II secolo d.C.), uno dei testi fondamentali dell’ebraismo rabbinico. Nel IV secolo d.C. Roma si cristianizza (Editto di Milano 313; Teodosio 380), mentre la presenza ebraica in Terra d’Israele continua ininterrotta anche sotto il dominio bizantino.

Gli italiani non esistevano. Gli Ebrei sì.

Durante tutto questo periodo la penisola italiana non ha ancora un popolo unitario.
È composta da: Latini, Etruschi, Umbri, Sabini, Sanniti, Lucani, Bruzi, Veneti, Liguri, Celti (Galli cisalpini), Iapigi (Dauni, Peucezi, Messapi), Greci della Magna Grecia, Sardi nuragici, Siculi, Sicani, Elimi. Non esiste un’identità italiana.Non esiste un popolo italiano.Non esiste una lingua italiana. Gli “Italiani” come identità etno-nazionale nasceranno solo molti secoli dopo, tra Medioevo ed età moderna.

Conclusione chiara e inequivocabile

Quando Roma stava ancora unificando i popoli italici e mentre gli “italiani” non esistevano come popolo, gli Ebrei erano già da tempo una nazione con una propria terra, una propria lingua, una propria cultura e una capitale: Gerusalemme. La storia non lascia margini di dubbio.

 

Lettera aperta agli antisionisti di destra– Parte I

 


Iniziamo dalla preistoria

Questa riflessione nasce da un punto cieco che molti, nella destra antisionista, continuano a ignorare: la concezione di patria che difendono con orgoglio è sorprendentemente simile alla visione sionista, eppure la contrastano come se rappresentasse un nemico ideologico.
Chiedi a un uomo di destra quali siano i cardini della sua identità e di solito risponde: Dio, Patria, Famiglia. Chiedi a un sionista e il contenuto è lo stesso: Dio (ebraismo), Patria (Israele), Famiglia. Le radici emotive, culturali, spirituali: identiche. E tuttavia, uno percepisce l’altro come antitetico. Non per ragioni storiche, ma per il peso di un mito costruito – il presunto “complotto ebraico” – alimentato per decenni da falsificazioni e letture distorte della tradizione ebraica.

A rendere il quadro ancora più paradossale contribuisce un altro fatto: l’antisionismo di destra e quello di sinistra finiscono per toccarsi, pur partendo da premesse opposte.
La matrice comunista ha sempre visto nelle identità nazionali un ostacolo e nella religione un impedimento ideologico. Da qui la fascinazione per un Islam politico percepito non come fede, ma come strumento di unificazione collettiva dentro un progetto “internazionalista”. Il risultato? Entrambi i fronti, per motivi diversi, hanno adottato la “causa palestinese” come vessillo: una causa che, storicamente, è stata modellata da diversi regimi arabi come leva geopolitica contro l’Occidente cristiano.

Ed ecco il nodo che nessuno vuole vedere: molti antisionisti di destra finiscono per sostenere proprio quei movimenti islamisti che vogliono distruggere i valori che loro ritengono sacri – Dio, Patria, FamigliaUna contraddizione gigantesca, resa possibile dalla scarsa conoscenza della storia del sionismo e della radice storica dell’identità ebraica.

Per capire meglio, torniamo indietro: alla preistoria.

Se mettiamo a confronto la formazione dei popoli italiani e quella dei popoli del Medio Oriente, la differenza temporale appare enorme.

Fine dell’Età del Bronzo (2200–1200 a.C.)

In Italia non esistevano gli “italiani”. La penisola era una scacchiera di gruppi differenti:

  • al Nord genti alpine e transalpine, spesso pre-indoeuropee;
  • al Centro popolazioni locali, non ancora strutturate in “popoli” storici;
  • al Sud Micenei, Ciprioti, Fenici e altri navigatori del Mediterraneo.

I popoli che conosciamo – Etruschi, Latini, Umbri, Sanniti, Veneti – non erano ancora nati. Compariranno solo nell’Età del Ferro (1000–900 a.C.). In quel periodo non esisteva alcun popolo italiano.

Nel frattempo, nel Medio Oriente…La situazione era completamente diversa.
Qui esistevano già stati veri e propri:

  • Hittiti,
  • regni siriaci,
  • Fenici,
  • Aramei (dai quali deriva Abramo),
  • prime formazioni politiche ebraiche (Israele e Giuda),
  • stati neo-ittiti anatolici.

Gli Arabi non erano ancora comparsi come entità storica, ma gli Ebrei sì: popolo, identità, lingua, culto.

Età del Ferro (900–300 a.C.)

In Italia finalmente compaiono identità più definite:

  • Etruschi,
  • Latini,
  • Sabini,
  • Umbri,
  • Piceni,
  • Golasecca e Leponti al Nord (culture celtiche),
  • DauniPeucezi e Messapi al Sud (origine balcanica),
  • SiculiSicaniElimi in Sicilia.

Un mosaico di lingue, culti, tradizioni diverse: nessun popolo unitario.

Nel Medio Oriente, invece, dominano imperi strutturati e centralizzati:

  • Neo-Assiro,
  • Neo-Babilonese,
  • Persiano achemenide.

E fra i popoli soggetti a questi imperi ci sono gli Ebrei, già pienamente riconoscibili come nazione storica.

Il caso specifico d’Israele

  • Età del Ferro I (1200–1000 a.C.): le tribù israelitiche sono già insediate in Samaria e Giudea.
  • Età del Ferro II (1000–586 a.C.): si forma il Regno Unito di Israele, che poi si divide in:
    • Regno di Israele (Nord, capitale Samaria),
    • Regno di Giuda (Sud, capitale Gerusalemme).

Parliamo di un popolo con una storia, una lingua, una fede e una struttura politica ben definite.

E l’Italia?

Fino al IV–III secolo a.C. non esisteva alcun popolo unitario: solo Etruschi, Latini, Sabini, Umbri, Piceni, Sanniti, Lucani, Bruzi, Veneti, Liguri, Celti, Iapigi, Siculi, Sicani, Elimi, Sardi nuragici. Ognuno con tradizioni e lingue proprie. L’identità unitaria nascerà soltanto con Roma.

La conclusione è inevitabile: quando gli Ebrei erano già un popolo con città, una cultura e una lingua, gli italiani non esistevano ancora.
Questa è storia, non ideologia. Ed è proprio da qui che occorre partire per comprendere la legittimità storica dell’idea di patria nel pensiero ebraico – la stessa idea che molti antisionisti di destra difendono quando parlano dell’Italia, ma rifiutano quando riguarda Israele.


mercoledì 12 novembre 2025

Il grande equivoco: perché l’antisionismo tradisce i valori della destra

 



C’è un paradosso profondo nel pensiero di una parte della destra europea e italiana: si dice patriottica, cristiana e difensore della civiltà occidentale, ma spesso si schiera contro Israele e contro il sionismo. Un errore ideologico, nato da vecchi pregiudizi e da un malinteso culturale che affonda le radici nella storia dell’antisemitismo cattolico e nelle teorie complottiste del Novecento.

Il mito dei “Protocolli dei Savi di Sion”

Tutto parte da un falso.
I Protocolli dei Savi di Sion, pubblicati in Russia all’inizio del Novecento, sono un documento completamente inventato dai servizi zaristi per accusare gli ebrei di voler conquistare il mondo.
Nonostante la loro falsità sia stata dimostrata già da un secolo, molti ambienti nazionalisti e fascisti li hanno presi sul serio, convinti che, pur essendo falsi “storicamente”, rivelassero una verità “spirituale”: cioè, che gli ebrei, attraverso la loro visione messianica, aspirassero al dominio universale. Questa idea è stata rilanciata da Julius Evola, uno dei principali riferimenti della destra culturale italiana. Evola sosteneva che, anche se falsi, i Protocolli sarebbero “autentici nello spirito”, perché rifletterebbero l’essenza del pensiero ebraico: la promessa di un Regno universale.
Ma qui sta l’errore. Evola confonde la speranza messianica ebraica, che è religiosa e spirituale, con un progetto politico di dominio, che non esiste né nella Bibbia né nella tradizione ebraica.

Il messianismo ebraico non è un piano di conquista

Nell’ebraismo, il Messia non è un conquistatore terreno, ma un inviato divino che porterà pace, giustizia e armonia tra le nazioni. Non si tratta di un popolo che domina gli altri, ma di un mondo in cui tutte le nazioni riconoscono un unico D-o e vivono in pace. Attribuire agli ebrei un sogno di dominio è una distorsione nata fuori dal giudaismo, e in particolare dalla cultura antigiudaica della Chiesa cattolica medievale.

Per secoli, la teologia cattolica ha insegnato che gli ebrei erano “il popolo che ha rifiutato Cristo” e che quindi D-o li aveva abbandonati, sostituendo Israele con la Chiesa: è la cosiddetta “teologia della sostituzione”. Questa dottrina ha giustificato persecuzioni, espulsioni e conversioni forzate, fino ad arrivare all’Inquisizione spagnola, dove gli ebrei convertiti (i “conversos”) venivano sospettati di praticare in segreto la loro fede. Da lì nascono i miti più assurdi: l’accusa di deicidio, di omicidi rituali, di usura e di complotti segreti.

Dalla leggenda medievale al complotto moderno

Quelle stesse leggende antiche si sono trasformate nei secoli in nuove versioni dello stesso pregiudizio: dal “complotto ebraico” medievale al “complotto giudeo-massonico” dei giorni nostri.
Ma la radice è sempre la stessa: l’ignoranza teologica.
Molti cattolici si sono formati più sul catechismo che sulla Bibbia, accettando come verità racconti senza fondamento.
Al contrario, i cristiani evangelici, che studiano la Bibbia fin dall’infanzia, hanno sempre riconosciuto il legame spirituale e profetico tra il popolo ebraico e la Terra di Israele.
Ecco perché, negli Stati Uniti, dove la base cristiana è in gran parte evangelica, il sostegno a Israele è fortissimo: nasce da conoscenza, non da pregiudizio.

Il sionismo: patria, non potere

Il sionismo non è un piano di dominio mondiale.
È il movimento che ha permesso al popolo ebraico, dopo duemila anni di esilio e persecuzioni, di tornare nella propria patria.
Non per conquistare altri popoli, ma per ricostruire la propria casa.
Israele non è un impero: è una democrazia circondata da regimi spesso ostili, che difende la propria esistenza in nome della libertà e del diritto alla vita del suo popolo.

L’ebraismo insegna che le nazioni sono tutte volute da D-o, ciascuna con la propria terra e il proprio destino.
Israele, nel disegno biblico, non deve dominare le altre, ma essere un “faro tra le nazioni”: un esempio morale e spirituale.
È questa la vera vocazione messianica, non il potere terreno.

Il vero paradosso della destra

Chi oggi si dice patriota, difensore della fede e dei valori tradizionali, non può essere antisionista senza contraddirsi. Perché il sionismo è esattamente questo: amore per la propria terra, fedeltà a D-o, centralità della famiglia e del popolo.  Sono gli stessi principi che la destra europea rivendica per sé. Essere contro Israele significa, di fatto, schierarsi contro l’idea stessa di patria e di radici.

Chi attacca Israele in nome dell’“antiglobalismo” dimentica che gli ebrei sono stati, nella storia, tra le prime vittime del vero globalismo ideologico: quello dell’uniformità religiosa imposta dalla Chiesa medievale e dai totalitarismi moderni.

Riscoprire la coerenza

L’antisionismo della destra non è un segno di coerenza ideologica, ma di confusione.
Si alimenta di un falso storico, di una teologia superata e di un pregiudizio ereditato dall’antisemitismo cattolico.  Difendere Israele non significa condividere ogni sua politica, ma riconoscere un legame spirituale e culturale profondo: quello tra la libertà di un popolo e il diritto di ogni nazione ad avere una patria.

In fondo, Israele rappresenta proprio ciò che la destra dice di voler difendere:
Patria, D-o, Famiglia, Identità e Tradizione.
Essere antisionisti significa negare questi stessi valori.  E dunque, chi davvero ama la propria terra e la propria fede, non può che vedere nel sionismo un alleato naturale, non un nemico.

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