Il diritto internazionale trova le sue radici nei trattati e nelle convenzioni stipulate tra Stati sovrani – bilaterali o multilaterali – o tra organizzazioni internazionali. A questi si aggiungono le consuetudini internazionali, che, pur non essendo scritte, sono considerate vincolanti come i trattati, e i principi generali del diritto, derivati dai sistemi giuridici nazionali.
Completano il quadro le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia, del Tribunale per il Diritto del Mare e le risoluzioni delle Nazioni Unite, che, se considerate parte integrante del diritto internazionale, assumono un valore normativo e politico rilevante.
Le origini legali e politiche dello Stato di Israele
In questa prospettiva, la Risoluzione 181 (II) dell’Assemblea Generale dell’ONU, approvata il 29 novembre 1947, rappresenta la premessa giuridica per la fondazione dello Stato di Israele.
La risoluzione prevedeva la spartizione della Palestina mandataria in due Stati indipendenti — uno ebraico e uno arabo — con Gerusalemme posta sotto amministrazione internazionale.
Il 14 maggio 1948, David Ben Gurion, capo dell’Agenzia Ebraica, proclamò ufficialmente la nascita dello Stato di Israele a Tel Aviv, poche ore prima della fine del mandato britannico.
Il giorno seguente, il 15 maggio 1948, gli eserciti di Egitto, Siria, Giordania, Libano e Iraq attaccarono il nuovo Stato, dando inizio alla prima guerra arabo-israeliana. Israele respinse l’aggressione e conquistò territori oltre i confini previsti dal piano ONU.
Il rifiuto arabo del piano di spartizione ebbe conseguenze profonde:
gli stessi Stati arabi che dichiararono guerra a Israele rifiutarono di fondare uno Stato palestinese, lasciando così un vuoto politico. I territori occupati da Israele dopo la guerra del 1948 non appartenevano a un’entità sovrana palestinese, ma erano ex territori del mandato britannico, non rivendicati formalmente dagli Stati arabi. Israele, quindi, si trovò ad amministrare territori privi di sovranità riconosciuta.
Una presenza ebraica ininterrotta in Terra d’Israele
Spesso si dimentica che gli ebrei non “ritornarono” semplicemente in Palestina nel Novecento, ma non se ne erano mai del tutto andati.
Dopo la distruzione del Secondo Tempio (70 d.C.) e la rivolta di Bar Kokhba (132–135 d.C.), una parte della popolazione ebraica continuò a vivere nella regione, soprattutto in Galilea, Gerusalemme, Hebron e Safed.
Nei secoli successivi — sotto domini bizantino, arabo e ottomano — le comunità ebraiche mantennero una presenza stabile e riconosciuta, con centri religiosi, scuole rabbiniche e attività economiche.
Durante il periodo ottomano (1517–1917), gli ebrei erano presenti nelle cosiddette “quattro città sante” dell’ebraismo: Gerusalemme, Hebron, Safed e Tiberiade.
Quando nel 1917 la Palestina passò sotto Mandato britannico, vivevano nel territorio circa 60–80.000 ebrei, molti dei quali discendenti di famiglie autoctone presenti da secoli.
Le successive ondate migratorie (aliyot) provenienti dall’Europa orientale, dallo Yemen e dal Nord Africa si innestarono dunque su una continuità storica preesistente.
Per secoli, ebrei e arabi vissero fianco a fianco, spesso in rapporti di collaborazione commerciale e culturale.
La contrapposizione etnica e politica emerse solo in epoca moderna, con la nascita del sionismo politico e del nazionalismo arabo, due ideologie parallele ma contrapposte che trasformarono un’antica convivenza in un conflitto identitario.
Dalla nascita di Israele alla questione palestinese
Solo quarant’anni dopo la fondazione di Israele, il 15 novembre 1988, durante una riunione ad Algeri, il Consiglio Nazionale Palestinese proclamò simbolicamente la nascita dello Stato di Palestina.
Fu un atto politico e simbolico, non sostenuto da un controllo territoriale reale: un’espressione di autodeterminazione del popolo palestinese, che in larga parte era composto da profughi provenienti da Egitto e Giordania.
La proclamazione richiamava i confini del mandato britannico e il piano ONU del 1947, che prevedeva due Stati, ma senza che questi fossero mai realmente nati.
Tra il 1948 e il 1988, la regione fu scossa da quattro guerre principali — la Crisi di Suez (1956), la Guerra dei Sei Giorni (1967), la Guerra del Kippur (1973) e l’invasione del Libano (1982) — tutte originate da iniziative militari arabe.
Nel frattempo, la Carta delle Nazioni Unite (1945) sanciva, all’articolo 2, paragrafo 4, che gli Stati devono astenersi dall’uso della forza contro l’integrità territoriale di altri Stati.
Ma questo principio era inapplicabile alla Palestina: uno Stato palestinese non esisteva, e la sua mancata esistenza era il risultato diretto del rifiuto arabo del 1947.
Tra il 1948 e il 1974 si registrarono 19 attentati terroristici attribuiti a gruppi palestinesi.
L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), nata nel 1964, ottenne nel 1974 il riconoscimento da parte dell’ONU come “unico legittimo rappresentante del popolo palestinese”.
La questione dello status dei territori e il dibattito sulla legittimità
Alla luce di queste premesse, la narrazione secondo cui “Israele occupa la Palestina” risulta giuridicamente imprecisa.
Israele amministra territori contesi, non appartenenti a uno Stato sovrano.
Secondo la Convenzione di Montevideo del 1933, per essere considerato Stato, un’entità deve possedere quattro elementi: popolazione stabile, territorio definito, governo effettivo e capacità di relazioni internazionali.
La Palestina, in assenza di un effettivo controllo territoriale e di una sovranità riconosciuta, non soddisfa pienamente questi criteri.
La posizione del mondo arabo e la questione di Gerusalemme
Dopo la proclamazione di Israele nel 1948, la Lega Araba ne rifiutò il riconoscimento, considerandolo una “creazione illegittima sul territorio arabo”.
Solo nel 1979, l’Egitto, membro fondatore, firmò con Israele il Trattato di pace di Camp David, primo passo verso una normalizzazione diplomatica.
Negli anni successivi, anche altri Paesi arabi — Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan — hanno stabilito relazioni ufficiali con Israele attraverso gli Accordi di Abramo (2020).
Tuttavia, la Lega Araba nel suo insieme continua a non riconoscere formalmente Israele, condizionando ogni riconoscimento alla creazione di uno Stato palestinese sovrano.
Alla base di questo rifiuto resta una convinzione radicata: la nascita di Israele sarebbe stata imposta dalle potenze occidentali dopo l’Olocausto, senza il consenso delle popolazioni arabe locali, che all’epoca costituivano la maggioranza.
Il nodo religioso: Gerusalemme contesa
Il conflitto israelo-palestinese non è solo politico, ma profondamente religioso e simbolico.
Per i musulmani, Gerusalemme Est è la capitale ideale del futuro Stato palestinese e la terza città santa dell’Islam.
Per gli ebrei, invece, Gerusalemme (Yerushalayim) è la città sacra per eccellenza, menzionata oltre 600 volte nella Bibbia ebraica:
la città di Davide, sede del Primo Tempio di Salomone, e luogo del sacrificio di Isacco.
Per la tradizione ebraica, Gerusalemme è il punto d’incontro tra Dio e il popolo d’Israele, la dimora della presenza divina (Shekhinah) e il simbolo eterno del legame con la propria terra.
Conclusione: il conflitto che non si estingue
La nascita di un “popolo palestinese” come entità politica moderna ha avuto anche la funzione di rafforzare la rivendicazione araba sull’intero territorio della Palestina storica, secondo lo slogan “dal fiume al mare”.
Da qui, la formula diplomatica “due popoli, due Stati” appare più come un ideale occidentale che come una soluzione realistica, poiché ignora le profonde radici religiose e culturali del conflitto.
Le tregue e gli accordi temporanei — come la liberazione di ostaggi o i cessate il fuoco — non rappresentano una pace duratura, ma solo pause tattiche in un conflitto che, per una parte del mondo arabo e islamico, può dirsi concluso solo con il pieno controllo islamico della Palestina.

