Il movimento
europeo della “remigrazione e riconquista”, oggi sostenuto da parti della
destra e da una parte dell’opinione pubblica, nasce da problemi reali, ma li
interpreta in modo parziale e propone soluzioni poco realistiche. Per capire
perché queste proposte non funzionano, bisogna analizzare con precisione le
cause strutturali che hanno portato l’Europa — e l’Italia in particolare —
alla situazione attuale.
Dopo la
Seconda guerra mondiale, l’Italia ha vissuto un periodo di crescita economica e
demografica: tra il 1946 e il 1960 si ha il boom delle nascite e la
ricostruzione industriale. Manifattura e agricoltura richiedevano moltissima
manodopera e la disponibilità di lavoro sosteneva naturalmente la natalità.
A partire
dagli anni ’70-’80 iniziò invece una transizione profonda: il tasso di
fecondità calò rapidamente fino a scendere sotto il livello di sostituzione
generazionale (2,1 figli per donna). Mentre nascevano sempre meno bambini,
aumentava l’aspettativa di vita. Il risultato è stato un Paese sempre più
anziano, con un numero crescente di pensionati sostenuti da una popolazione
attiva sempre più ridotta.
Oggi siamo
nel pieno di questa crisi: l’Italia ha uno dei tassi di natalità più bassi al
mondo (circa 1,2–1,3 figli per donna) e un rapido calo della popolazione in età
lavorativa. Nonostante ciò, agricoltura, logistica, edilizia e alcuni settori
industriali continuano ad avere bisogno di manodopera. È qui che entra in gioco
la scelta europea, fatta dagli anni ’90 in poi: compensare il calo dei nati
con l’immigrazione.
Ed è proprio
qui che emerge la differenza decisiva.
L’immigrazione del passato — come quella degli italiani in America, in Belgio o
in Svizzera — avveniva tra popolazioni che, pur diverse, condividevano un
quadro culturale e religioso simile (cristianesimo o ebraismo). L’integrazione
non era immediata, ma era possibile: nel giro di due o tre generazioni si
creavano comunità pienamente integrate.
L’immigrazione contemporanea è
profondamente diversa. Ma quando gli immigrati provengono da una cultura
tribale è impensabile che essi si integrano, ma si aggregano e vivono in quartieri
chiusi. Quindi la prima domanda che ci dobbiamo porre è: chi favoriamo nell’immigrazione,
che popoli? La questione si aggrava quando l’immigrazione è caratterizzata da
musulmani. Infatti l’immigrazione è una forma di jhad perché serve al processo
di islamizzazione e di espansione dell’islam. Considerate che i musulmani
praticano la poligamia, a fronte di una moglie ufficiali ne anno altre “sposate”
solo religiosamente e con ogni donna fanno una media di 5 figli. Figli che sosteniamo noi con la spesa
sociale. Una parte significativa dei flussi proviene da paesi a maggioranza
islamica, dove la struttura familiare, il modello sociale e la visione del
rapporto tra religione e vita pubblica sono molto diversi e sono in contrasto
con quelli europei. Dobbiamo constatare che:
- molte
comunità immigrate tendono a vivere in quartieri propri, non a mescolarsi;
- i tassi
di natalità sono molto più alti rispetto alle società europee;
- la
religione continua a essere un fattore identitario centrale;
- l’integrazione
culturale procede lentamente e spesso si ferma alla prima o seconda
generazione.
È evidente che l’immigrazione di
popolazioni numerose, culturalmente molto distanti e con tassi di natalità più
elevati genera uno squilibrio strutturale tra una società europea che non
fa più figli e comunità che mantengono ritmi demografici molto più alti.
In altre
parole, la crisi non deriva semplicemente dall’immigrazione, ma da una
denatalità autoindotta che ha reso l’Europa demograficamente fragile.
Abbiamo anteposto il tempo libero, il consumo e l’individualismo alla
costruzione di famiglie numerose. Abbiamo preferito proteggere il presente
invece di costruire il futuro. Le generazioni precedenti, pur con più
difficoltà economiche, accettavano sacrifici che oggi riteniamo eccessivi.
Il risultato
è davanti ai nostri occhi: una società che invecchia rapidamente, che ha
bisogno di lavoratori e che per colmare il vuoto si affida a flussi migratori
in larga parte provenienti da contesti islamici. Flussi che, per motivi
culturali e religiosi, non sempre si integrano facilmente.
La
conseguenza è un duplice squilibrio:
- demografico, perché gli europei fanno
pochi figli mentre le comunità immigrate crescono;
- culturale, perché l’identità europea si
indebolisce mentre crescono identità parallele.
Per chi
crede — cristiani o ebrei — la questione non è solo sociale ma anche
spirituale: la natalità è una benedizione, una mitzvà, una vocazione.
Rinunciare ai figli per timore economico o per non sacrificare il “tempo
libero” significa privare la nostra civiltà della sua continuità.
La responsabilità ricade sia sulle coppie che potrebbero costruire famiglie
numerose, sia sui genitori che non incoraggiano i propri figli a farlo. Non
possiamo ragionare solo sul presente: il futuro si fonda sulle nuove
generazioni. E senza bambini, nessuna società sopravvive, indipendentemente da
quanta immigrazione riceva.
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