Visualizzazione post con etichetta Parashot. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Parashot. Mostra tutti i post

venerdì 2 maggio 2025

Parashot Tazria e Metzorà

 


Quando la pelle parla per l’anima: cosa ci insegnano Tazria e Metzorà sul linguaggio, la guarigione e lo sguardo

Nel cuore del Levitico, i capitoli di Tazria e Metzorà parlano di malattie della pelle, di impurità e di rituali di purificazione. A prima vista, sembrerebbero pagine antiche e remote, apparentemente fuori tempo rispetto alla sensibilità moderna. Eppure, lette con attenzione, queste parashot ci offrono una delle riflessioni più profonde sull’essere umano, sul suo rapporto con la comunità e su come il corpo possa farsi specchio dell’anima.

Perché nella Torah, la tzaraat – spesso tradotta frettolosamente come “lebbra” – non è una malattia infettiva, ma un segnale spirituale, un messaggio che affiora sulla pelle per dirci che qualcosa, dentro, si è incrinato.

Il corpo non mente: l’ombra della parola

La tradizione ebraica ci insegna che la tzaraat non nasce da cause fisiche, ma morali. Il Talmud, con la sua sapienza millenaria, collega questa condizione a comportamenti distruttivi come la maldicenza, l’arroganza, l’invidia o lo sguardo negativo verso gli altri. In altre parole: quando le parole fanno male, il corpo lo mostra.

Ed è qui che la Torah ci sorprende, anticipando di millenni il principio fondamentale della medicina olistica: la malattia è anche un messaggio, un’occasione per fermarsi, ascoltarsi e ricostruire l’equilibrio tra corpo, emozioni e spirito.

L’isolamento che cura

Il metzorà – la persona colpita dalla tzaraat – veniva temporaneamente allontanato dall’accampamento. Non per punizione, ma per protezione. Per permettergli di fare spazio, di entrare in ascolto, di compiere un percorso interiore. Un isolamento che, nella sua solitudine, non è assenza, ma presenza profonda: tempo per la consapevolezza, per rivedere le parole dette, i pensieri coltivati, i giudizi espressi.

Anche qui, la Torah ci parla con una modernità disarmante: non si guarisce solo con i farmaci o le tecniche, ma con l’introspezione, il silenzio, il tempo giusto per ciascuno.

Il sacerdote – il Cohèn – non è un medico nel senso tecnico. È una guida spirituale, che osserva non solo la pelle, ma la persona. Prima di dichiarare l’impurità, aspetta. Valuta se è il momento adatto. Perché non si guarisce quando lo dice un protocollo, ma quando l’anima è pronta.

Sguardo che ferisce, sguardo che guarisce

Un insegnamento potente emerge dal confronto tra due parole: nèga (piaga) e oneg (delizia). In ebraico hanno le stesse lettere: נ, ג, ע. Cambia solo l’ordine. E cambia il significato. A fare la differenza è l’ayin, la “occhio”. Lo sguardo, diremmo oggi.

Questo piccolo dettaglio linguistico ci insegna qualcosa di universale: la realtà non è solo ciò che accade, ma come la vediamo. Una difficoltà può diventare una rovina o una rinascita. Una parola può dividere o unire. Un giudizio può ferire o illuminare. Sta a noi scegliere lo sguardo da cui partire.

Dalla parola alla responsabilità

La Torah è molto attenta anche al linguaggio. Non permette neppure al sacerdote di dire con certezza “è una piaga”, ma solo “mi sembra una piaga”. È un esercizio di delicatezza, di sospensione del giudizio. Un invito alla prudenza nel parlare degli altri.

Il Talmud spiega che le parole hanno un potere immenso, non solo etico ma quasi “energetico”: chi calunnia, dicono i Maestri, perde le sue buone azioni e si carica dei peccati di chi ha denigrato. Non è solo questione morale. È una legge spirituale di causa-effetto.

La guarigione è un cammino

Il percorso del metzorà, una volta guarito, è dettagliato: immersione, offerte, unzioni. Il corpo viene riconsacrato, pezzo per pezzo: orecchio, mano, piede. Come a dire: ascolta meglio, agisci con consapevolezza, cammina con direzione.

Uno degli atti più simbolici è quello dell’uccello lasciato libero: rappresenta la parola che ritorna pura. Non più arma, ma canto. Parlare può ferire, ma può anche liberare. Il rito insegna a usare la voce per benedire, non per distruggere.

Shabbat, l’antidoto settimanale

In questo contesto, lo Shabbat appare come il contrario del nèga: è oneg, piacere sacro. Il giorno in cui si torna a casa, nella comunità, in se stessi. È la medicina settimanale per non cadere nel veleno delle parole inutili, nella fatica dell’invidia, nel logoramento del giudizio.

Un messaggio attuale

Tazria e Metzorà sembrano parlare di un mondo antico. E invece, ci raccontano il nostro presente. In un’epoca in cui si parla troppo, si giudica velocemente e si dimentica l’ascolto, ci ricordano che ogni parola è un atto medico: può curare o può infettare.

E ci insegnano che la guarigione vera nasce dallo sguardo, da quella capacità di vedere oltre la macchia, oltre il sintomo, per cogliere ciò che chiede di essere trasformato.

Guarire, in fondo, significa questo: mettere l’occhio giusto nel posto giusto. Cambiare lo sguardo per cambiare la vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


giovedì 24 aprile 2025

Parashà Sheminì

 

La Parashà Sheminì si apre con un momento di enorme importanza: l’ottavo giorno dell’inaugurazione del Mishkàn, il Tabernacolo. Dopo sette giorni di preparativi, ora è il momento in cui la presenza divina si manifesta apertamente. Aronne offre i primi sacrifici come sommo sacerdote, eseguendo i rituali con precisione. Alla fine del processo, un fuoco divino scende dal cielo e consuma le offerte: un chiaro segno che Dio ha accettato il culto d’Israele (Lev. 9:24).

Ma l’atmosfera si spezza all’improvviso. I figli di Aronne, Nadav e Avihù, offrono un “fuoco estraneo”, un’iniziativa personale e non autorizzata. Per questo motivo, un altro fuoco li consuma, ed essi muoiono davanti a Dio (Lev. 10:1-2). Mosè dice ad Aronne che la santità di Dio si manifesta con rigore soprattutto tra coloro che si avvicinano a Lui. Aronne, in silenzio, accetta il verdetto.

Segue un insegnamento fondamentale per i sacerdoti: vietato entrare nel Santuario in stato di ebbrezza. Infine, il testo si conclude con le leggi della kashrut (alimentazione lecita): vengono elencati gli animali, pesci e uccelli che si possono o non si possono mangiare.

Sintesi del commento talmudico/chassidico

Otto: il numero che trascende

Il numero otto, simbolo della trascendenza, rappresenta ciò che è oltre la natura. Il settimo giorno è la perfezione naturale (Shabbat), l’ottavo è miracolo, rivelazione pura. Il messaggio: attraverso l’impegno umano (i “sette giorni”), si può accedere alla luce divina (l’“ottavo giorno”).

Nadav e Avihù: martiri della luce

Il Rebbe di Lubavitch propone una lettura rivoluzionaria: i due figli non sono semplici trasgressori, ma anime elevate consumate da un amore inarrestabile per Dio. Morirono “per un bacio divino”, desiderosi di unirsi completamente con Lui. È un'“overdose spirituale”, una passione così intensa che li ha portati oltre i limiti umani. Vari maestri (Ohev Yisrael, Shamshon di Ostropola, Rebbe di Lelov) confermano l’interpretazione mistica: morirono perché si avvicinarono troppo alla luce divina. Non fu una punizione, ma una fusione dell’anima con Dio. Come il popolo che al Sinai chiese a Mosè di parlare al posto di Dio per timore di morire per la potenza della voce divina.

Kashrut e umiltà spirituale

Le regole alimentari vengono subito dopo questo evento per ricordarci che servire Dio non è solo estasi, ma anche disciplina. Anche se una regola non è comprensibile, va accettata come parte del “giogo del Cielo” (kabalat ol), superando la logica con la fede. Si raccontano episodi (come quello del Chatam Sofer) che sottolineano l’importanza di seguire scrupolosamente le leggi alimentari. Anche chi mangia cibo proibito per errore, viene spiritualmente danneggiato. Questo tema è fortemente legato alla purezza e alla disciplina spirituale quotidiana.

Il potere del cambiamento

Il messaggio è: “non è mai troppo tardi”. Anche chi è nel “49° livello di impurità” (come gli ebrei in Egitto) può elevarsi. L’ebreo kasher è quello che sa nuotare controcorrente. C'è una costante possibilità di ricominciare, come quando ogni mattina il mondo viene “ricreato da zero”.

La Parashà Sheminì ci parla della vicinanza a Dio e del rischio della passione senza limiti, ma anche dell’importanza della disciplina, dell’umiltà e della rigenerazione quotidiana. È un testo che unisce vertigini mistiche e rigore etico, fuoco divino e cibo kasher, silenzio sacro e grida di gioia.

Nel testo di Ebrei 9, si fa un parallelo tra il culto del Mishkàn e il sacrificio di Gesù come “sommo sacerdote perfetto”. In chiave ebraica, questo è un esempio classico di appropriazione simbolica: il sistema dei sacrifici non è superato, né si concentra in una figura unica e definitiva, ma è parte di una struttura divina continua, che trova senso nella molteplicità e nella ciclicità del culto ebraico.

Il Kohen Gadol (Sommo Sacerdote), come Aronne, non agisce per sé ma come shaliach tzibbur, emissario del popolo. Non si tratta mai di una salvezza individuale o mistica, ma di un processo collettivo dove ogni persona ha il dovere di correggere se stessa.

Inoltre, l’idea che un solo sacrificio possa "sostituire" tutti gli altri è estranea al pensiero ebraico. La teshuvà (ritorno), la tefillà (preghiera) e la tzedakà (giustizia) sono strumenti quotidiani, non atti unici e definitivi. Ogni giorno è un nuovo inizio — come insegna la stessa parashà di Sheminì.

Il paragone con Nadav e Avihù

Il richiamo alla morte di Anania e Saffira in Atti 5 viene spesso visto, nel mondo cristiano, come parallelismo con Nadav e Avihù. Ma in chiave ebraica questo confronto non regge se preso alla lettera.

  • Nadav e Avihù non mentono né compiono una truffa. La loro colpa è spirituale, non morale. Hanno cercato di entrare nella santità oltre i limiti stabiliti, e sono stati consumati dalla luce divina. La loro morte è letta, da molti maestri, non come punizione, ma come un'elevazione mistica estrema (un "bacio di Dio").
  • Anania e Saffira invece mentono consapevolmente, e il loro atto è di inganno materiale e sociale. Qui si tratta di ipocrisia e falsità, che corrompono la comunità. Non è un eccesso di zelo spirituale, ma il suo contrario.

Il messaggio di Nadav e Avihù è ebraico: non basta l'intenzione o l'ardore, serve rispetto delle mitzvòt e dei confini. Non puoi bruciare la tua anima nel Nome di Dio. L’ebraismo non è mistica distruttiva, ma santificazione disciplinata del mondo.

La lezione ebraica che si ricava è profonda:

“La santità non è nell’estasi, ma nel contenimento.”
Il Kohen Gadol entra nel Santo dei Santi una volta all’anno, e solo su ordine divino e dopo purificazione rituale. La santità è tremenda e pericolosa se si accosta con leggerezza o arroganza.

In questo senso, Nadav e Avihù ci insegnano che avere fervore non basta. Anche la devozione più intensa deve essere incanalata secondo la halachà. Non esiste un "salvatore perfetto" nell’ebraismo — esiste una comunità di cohanìm, e un popolo intero chiamato ad essere “mamlechet kohanim vegoy kadosh”, un regno di sacerdoti e una nazione santa.

Dvar Torà – Sheminì: Il fuoco che consuma e quello che eleva

Questa settimana leggiamo la Parashà Sheminì, in cui assistiamo a uno dei momenti più intensi e drammatici della Torà: la morte improvvisa di Nadav e Avihù, i figli di Aronne. Il testo dice:

“E presero ciascuno il suo braciere, vi misero fuoco, vi posero sopra dell’incenso, e offrirono davanti ad Hashem un fuoco estraneo, che Egli non aveva comandato... e un fuoco uscì da Hashem e li consumò.” (Vayikrà 10:1-2)

Perché sono morti?

La tradizione rabbinica offre molte spiegazioni: erano ubriachi, non avevano consultato Mosè, non indossavano le vesti sacerdotali, erano troppo presuntuosi. Ma poi arriva l’Or HaChayim, e più tardi i maestri chassidici, a dire qualcosa di sconvolgente: Nadav e Avihù non sono morti per punizione, ma perché si sono avvicinati troppo alla Luce. Come una falena attratta dal fuoco, il loro desiderio di Dio era così bruciante da farli consumare.

Non basta la passione

In ebraico, il termine usato è "esh zarà" – “fuoco estraneo”. Anche il fuoco, simbolo della Shechinà, può diventare distruttivo se non è incanalato. Il messaggio è potente: non tutto ciò che “viene dal cuore” è accettabile davanti a Dio. L’ebraismo non ci chiede solo intenzione (kavanà), ma anche struttura, limiti, precisione.

Rashì commenta: “Hanno deciso da sé – e non da un comando divino.”
Ramban aggiunge: “Il loro peccato fu l’iniziativa non richiesta, perché anche il bene non ordinato diventa trasgressione quando altera il servizio sacro.”

Il vero servizio divino? Dentro i confini

Viviamo in un’epoca in cui si valorizza molto l’autenticità, l’emozione, il sentirsi ispirati. Ma Sheminì ci insegna che anche la spiritualità ha bisogno di una cornice. Un amore per Dio che ci allontana dal mondo e ci consuma, non è quello che Hashem desidera. Lui ci vuole presenti, sobri, attenti.

Il messaggio per oggi

In un mondo dove è facile bruciare per una causa e poi spegnersi, Sheminì ci invita a costruire una fiamma che dura. Non un incendio emotivo, ma una ner tamid, una luce costante. Il vero servizio è quello quotidiano, disciplinato, che non cerca solo il miracolo, ma lavora nella realtà.

Come dice il Talmùd (Yomà 39a):

“Colui che si santifica da sé in basso, viene santificato dall’Alto.”

Vuol dire: fai tu il primo passo, ma fallo con misura, e Dio farà il resto — ti eleverà in modi che non puoi nemmeno immaginare.

domenica 6 aprile 2025

Va-icra Levitico 1-5 Sacrificare il proprio EGO

 



L'Olocausto, in ebraico olah (עֹלָה), deriva da una radice che significa "salire". Era un sacrificio completamente bruciato sull'altare: il fumo si innalzava verso Dio, senza che nessuna parte dell’animale venisse consumata. Era un gesto di dedizione totale e sottomissione alla volontà divina, non necessariamente legato al peccato, ma espressione di amore assoluto verso Dio.

Accanto a questo tipo di sacrificio troviamo i shelamim (שְׁלָמִים), i sacrifici di pace o offerte di benessere. Il termine evoca pace, completezza e armonia. In questo caso, l’animale veniva sacrificato ma il dono era condiviso: una parte veniva bruciata sull’altare, una parte mangiata dai sacerdoti e una parte dallo stesso offerente, spesso in compagnia di amici e parenti, in un banchetto sacro che celebrava l'armonia con Dio.

Esistevano anche sacrifici legati all’espiazione dei peccati, come il chatat (חַטָּאת) e l’asham (אָשָׁם). Il chatat veniva offerto per errori involontari, mentre l’asham era richiesto per colpe più gravi, come appropriazioni indebite o profanazioni del sacro. In questi sacrifici, parte dell’animale veniva bruciata, parte assegnata ai sacerdoti, e il sangue impiegato in riti specifici di purificazione.

La Torah ci offre esempi concreti: Abramo che offre Isacco sul monte Moriah è un olocausto; il nazirato che si concludeva con i shelamim; e il Sommo Sacerdote che a Yom Kippur offriva un chatat per purificare l’intero popolo.

Solo animali domestici e mansueti potevano essere sacrificati: bovini, ovini, caprini, simboli della parte più pura e controllata dell’essere umano. Chi non poteva permettersi grandi offerte, poteva presentare un sacrificio più umile, come colombe o farina, perché a Dio importa il cuore, non il valore materiale.

Il toro rappresentava forza, orgoglio e potenza fisica: offrire un toro significava sottomettere la propria forza a Dio. La pecora e l’agnello, simboli di innocenza e umiltà, rappresentavano la fedeltà e la purezza. La capra, più indipendente, alludeva alla testardaggine umana. Gli uccelli, come le tortore e i colombi, erano l’offerta dei poveri, e simboleggiavano semplicità e pace. Le offerte farinacee, come la minchah, erano per chi non poteva offrire animali: semplici ingredienti – farina, olio e incenso – ma il gesto era carico di valore, come insegna il Talmud: "Chi offre una minchah è come se avesse offerto la propria anima."

A questo si collega un bellissimo Midrash narrato in Vayikrà Rabbah. Un uomo, tanto povero da non poter permettersi nemmeno una colomba, desiderava comunque avvicinarsi a Dio. Raccolse la poca farina che aveva e la portò come offerta al Tempio. Dio, vedendo il suo cuore, disse: "È come se avesse offerto la sua stessa vita davanti a Me." Quella manciata di farina, donata con amore, fu accolta da Dio con più gioia di tanti tori e arieti sacrificati dai ricchi.

Il Talmud, in Menachot, aggiunge che oggi chi studia e recita le parti della Torah sui sacrifici è considerato come se li avesse realmente offerti. Il Midrash Tanchuma racconta ancora che, dopo la distruzione del Tempio, gli angeli chiesero a Dio come sarebbe stato possibile mantenere il legame con Lui senza più sacrifici. Dio rispose: "Quando leggono e studiano la Torah sui korbanot, è come se Mi portassero tori sull'altare." E aggiunse: una preghiera detta con sincerità vale più di mille tori sacrificati senza cuore.

Le parole sincere salgono fino al Trono Celeste, proprio come i profumi e i fumi dei sacrifici antichi. Oggi, il nostro cuore è il nuovo altare. Il Salmo 51 lo esprime meravigliosamente: "I sacrifici di Dio sono uno spirito spezzato; un cuore contrito e umile, Dio non disprezzerà." Non conta quanto offriamo materialmente, conta quanto ci doniamo con sincerità.

Oggi i nostri "sacrifici" sono la preghiera, che ha preso il posto dei korbanot; lo studio della Torah, che è come offrire un olocausto; e gli atti di gentilezza, che sostituiscono i shelamim di pace.

Nel sistema dei sacrifici, anche il tipo di animale offerto rifletteva la gravità della colpa e la responsabilità della persona. Il Sommo Sacerdote e il popolo, responsabili spiritualmente dell’intera nazione, offrivano un toro, simbolo di forza e orgoglio da purificare. I principi offrivano un capro, animale associato alla testardaggine, mentre le persone comuni offrivano una pecora o una capra femmina, segno di peccati più personali e fragili.

Quando la colpa era collettiva, era come una ferita inferta al "corpo unico" di Israele. Nella Torah, Israele non è una somma di individui, ma un solo organismo vivente. Se un dito si ferisce, soffre solo il dito; ma se si ferisce il cuore, l'intero corpo è in pericolo. Una colpa collettiva è una ferita al cuore stesso di Israele.

Dio ha scelto Israele per essere "una luce per le nazioni". Quando Israele pecca come popolo, la sua missione si oscura, e con essa ne soffre tutto il progetto divino per il mondo. La purezza spirituale di Israele non riguarda solo se stesso, ma anche il benessere dell’umanità intera.

Nella tradizione ebraica vige il principio "Kol Yisrael arevim zeh bazeh" – "Tutti gli ebrei sono responsabili gli uni degli altri". Non esiste salvezza personale separata: ogni individuo ha una responsabilità reciproca, deve educare, aiutare e migliorare chi gli sta intorno. Se una società intera sbaglia, vuol dire che qualcosa si è rotto nel tessuto stesso della comunità, e tutti ne portano una parte di responsabilità.

Quando Israele è unito, è come un unico cuore vivo e pulsante. Quando pecca collettivamente, è come se tutto il cuore fosse ferito. La santità si moltiplica quando il popolo è unito nella purezza, ma si ritira quando cade nel peccato. E questa perdita non colpisce solo Israele, ma tutto il mondo, che da Israele attende luce, guida e benedizione.

mercoledì 27 novembre 2024

Parashat Vaierà, Genesi 17,1 - 22,24

 



Quale prezzo siamo disposti a pagare per i nostri obiettivi?

Quando desideriamo qualcosa ci poniamo mai la domanda quale prezzo siamo disposti a pagare? Ovviamente non si parla  di beni che sono generalmente quotati, ma parliamo di obiettivi che desideriamo raggiungere, ovvero del prezzo, in termini di sacrifici personali, che siamo disposti a pagare per raggiugere quell'obiettivo desiderato. Tanto è impossibile e desiderato l'obiettivo, tanto elevato è il prezzo che dobbiamo essere disposti a pagare. Spesso chi ci pone il dilemma della scelta non vuole il nostro sacrificio, ma la nostra attitudine e consapevolezza a sacrificarci. Perché è importante non esitare ed essere pronti a pagare il prezzo? Perché ciò dimostra la nostra motivazione, quella motivazione che è l'unica cosa che ci consente di ottenere quello che vogliamo. Cosi nella storia di Abramo vediamo che il desiderio era avere una "progenie" ovvero un figlio. Cosa impediva ad Abramo di avere un figlio? L'età e la sterilità della moglie: (Genesi 17:17..Nascerà un figlio a un uomo di cento anni? e Sara, che ha novant'anni, partorirà forse?”). Ora sappiamo che Abramo, spinto dalla moglie Sara, sterile, ricorse, su suggerimento della moglie stessa, ad una gravidanza surrogata, concependo un figlio "Ismaele" con la sua serva. Ciò dimostra quanto fosse complessa la situazione (progenie significava anche a chi dare l'eredità) e come Abramo non fosse sostenuto dalla moglie che non credette alla possibilità di concepire un figlio, secondo la promessa che D-O fece ad Abramo. 

Cosa significa questo atto di debolezza? Che è possibile nel nostro cammino sbagliare e perdere di vista la speranza e l'obiettivo, ma è altrettanto possibile che la speranza animata dalla ricerca del Trascendente (D-O)ci dia la forza di riprendere il cammino. Tuttavia è chiaro che ogni sbaglio ha delle conseguenze che siamo chiamati a gestire anche quando riprendiamo a percorrere la strada segnata; la scelta sbagliata, il concepimento surrogato con la serva, avrà delle conseguenze, delle tensioni, delle implicazioni per il futuro, e saremo chiamati a proseguire il cammino verso l'obiettivo gestendo anche le complicazioni sorte dalla scelta sbagliata. Ciò comporterà più sacrifici.

L'incontro con D-O comporta il superamento dei limiti della natura(la sterilità) e del tempo (l'età), solo superando nelle nostre aspettative questi limiti possiamo trovare la forza e la volontà di essere protagonisti di un miracolo, ed una sfida ulteriore, quella della conoscenza (Genesi 18: 17 L'Eterno disse: “Nasconderò io ad Abraamo quello che sto per fare). Saremo chiamati a misurarci con gli eventi che apparentemente non sono collegati al nostro "sogno" obiettivo, salvo scoprire che nel futuro, l'azione positiva che faremo. E' emblematico che Abramo davanti alla notizia dell'imminente distruzione di Sodoma si preoccupò anche dell'altro, di chi non conosceva, come dimostra l'intermediazione in Genesi 18: 23 E Abraamo si avvicinò e disse: “Farai tu perire il giusto insieme con l'empio?. Non possiamo vivere come se fossimo soli, il nostro cammino dipende anche da come noi ci interessiamo degli altri, l'altro è la misura di come noi siamo connessi con il trascende, e prendiamo consapevolezza che non siamo isole. Quanto ci prendiamo cura dell'altro?

 


domenica 10 novembre 2024

Parashat Noah Genesi 6:9-11:32



TEMI

  • Il diluvio Genesi 6:9-8:22
  • Il patto Genesi 1-9
  • Discendenza di Noé Genesi 10-11

Quando nella famiglia si disonorano i genitori

9:18 I figli di Noè usciti dall’arca erano: Scem, Hham, e Jèfeth; e Hham è il padre di Cànaan. 19 Questi tre sono i figli di Noè, e di questi la progenie si sparse per tutta la terra. 20 Noè, uomo agricola, incominciò, e piantò una vigna. 21 E bevuto del vino, si ubbriacò, e si denudò entro la sua tenda. 22 Hham, padre di Cànaan, vide le vergogne di suo padre, e narrò la cosa ai due suoi fratelli al di fuori. 23 Scem e Jèfeth presero una coperta, e postala sulla schiena di amendue, camminarono a ritroso, e coprirono le vergogne del loro padre, tenendo il volto indietro, e le vergogne del loro padre non videro. 

Sono trascorse 10 generazioni da Adamo e Caino e la famiglia continua ad essere al centro della narrazione della Torah in cui la famiglia di Noé è protagonista di un evento traumatico, non si parla di "fratricidio" ma ora si parla di "pudore" rispetto del genitore. Noè si inebria e suo figlio  Hham lo vede nudo e ne parla ai fratelli. Perché la Torah  narra questo evento? Cosa dobbiamo comprendere? Perché il figlio  Hham si è stupito al punto di narrarlo ai fratelli? Cosa stava facendo Noè nudo nella sua tenda? Perché Noè si è irritato?

Ciò che possiamo notare, come per la storia della famiglia di Adamo ed Eva, anche con la famiglia di Noè continuano a manifestarsi incomprensioni, debolezze e comportamenti diversi tra i figli. Non sappiamo cosa abbia fatto Hham, perchè la Torah non entra nel merito ma possiamo desumere dalla tradizione orale la prima idea che emerge è "la mancanza di rispetto per il padre" perché ne parlo con  fratelli, quasi come scherno, considerata la reazione dei fratelli. Infatti quando nella narrazione si prosegue:..quando Noè seppe cosa aveva fatto il figlio minore...si fa intendere che in realtà il problema non fu solo di pudore ma una relazione sessuale incestuosa se consideriamo che nel linguaggio "vedere la nudità"  può intendere un rapporto sessuale addirittura con la madre, ovvero con la moglie di Noè ( Levitico 20,17 Se uno prende la propria sorella, figlia di suo padre o figlia di sua madre, e vede la nudità di lei e lei vede la nudità di lui, è un'infamia; tutti e due saranno tolti via sotto gli occhi dei figli del loro popolo; quel tale ha scoperto la nudità della propria sorella; porterà la pena della sua iniquità).

Vediamo la responsabilità di Noè nel perdere il controllo ubbriacandosi di vino, la violazione dell'intimità dei genitori da parte del figlio minore e il tentativo da parte degli altri fratelli di salvaguardare il padre coprendone l'umiliazione. Solo un fatto grave come un "incesto" può giustificare una reazione cosi forte da parte di Noè ...24 Svegliatosi Noè del suo vino, seppe ciò che gli fece il suo figlio minore. 25 E disse: Maledetto Cànaan Infimo schiavo sia de’ suoi fratelli. Come per la storia di Caino e Abele benché si nasca nella stessa famiglia, e si sia ricevuto la medesima educazione o opportunità, i figli crescendo acquisiscono una loro personalità sviluppando attitudini positive o negative. E' vero che l'educazione è importante, ma trova il suo limite nella personalità della persona che rimane un individuo a se stante, e nelle esperienze che fa durante la crescita.

Questo introduce un ennesimo concetto, quello del Karma. Le attitudini/inclinazioni positive e negative si trasmettono a livello genetico. Come per la genealogia di Caino cosi anche quello di Hham si sviluppa con un karma negativo. La Torah ci sta insegnando che riceviamo una inclinazione dai genitori, positive e negative, ma sono le scelte che facciamo, positive e negative, che possono condizionare il nostro futuro ed il futuro dei nostri figli ecc. Quindi non solo la famiglia è la base della società, ma le nostre scelte possono modificare gli eventi. Ancora oggi possiamo essere protagonisti della nostra vita con le nostre scelte e se scegliamo con saggezza, possiamo segnare per le generazioni future uno sviluppo positivo lasciando loro la responsabilità di proseguire sul tracciato indicato o modificarlo. Similmente se scegliamo in modo istintivo avremo un risultato opposto, e comunque ogni singolo può modificare positivamente la traiettoria.

La Torah con esempi di famiglie ci indica quali sono le debolezze umane e le conseguenze, per spingerci a migliorare noi stessi.

Erminio David Petronio


Parashat Bereshit 1:1-6:8



TEMI

  • La creazione Genesi 1:1-26
  • La creazione dell'Uomo e della donna Genesi 2:1-25
  • La caduta Genesi 3:1-24
  • Il primo omicidio Genesi 4:1-26
  • Discendenza di Adamo Genesi 5:1-6:8

Perché il fratricidio è il primo evento narrato?

4:1 L’uomo poi avendo conosciuto Eva sua moglie, questa rimase incinta, e partorì Caino, e disse: Ho acquistato un uomo col (l’ajuto del) Signore. 2 Indi partorì eziandio suo fratello Abele. Abele fu pastore di bestiame minuto, e Caino fu agricoltore.3 Al termine di qualche tempo Caino recò dei prodotti della terra un presente al Signore. 4 Ed Abele recò anch’egli dei primogeniti del suo bestiame minuto, e delle loro parti più adipose; ed il Signore mostrò gradimento ad Abele ed al suo presente. 5 Ed a Caino ed al suo presente non mostrò gradimento; e ne rincrebbe a Caino assai, e ne restò abbattuto. 6 Il Signore disse a Caino: Perché ti rincresce, e perché sei abbattuto? 7 Già se opererai bene sarai esaltato; ma se tu non operi bene… Il peccato sta coricato alla porta; egli ha desiderio di te, ma tu domini sopra di lui. 8 Caino disse (ciò) ad Abele suo fratello. Indi mentre erano in campagna, Caino, alzatosi contro Abele suo fratello, l’uccise.

 קַיִן Caino significa acquisizione e Abele הֶבֶל significa effimero. Già nei nomi vediamo come spesso noi genitori proiettiamo sui figli quelle che sono le nostre aspettative. Caino era il "primogenito" e come tale l'aspettativa era maggiore rispetto ad Abele il secondo genito. Le nostre proiezioni ed aspettative spesso ci spingono a creare, nostro malgrado, gelosia tra i figli e con loro. I figli entrano in una competizione e spesso questa competizione può avere esiti sconvolgenti. Infatti nella narrazione del testo è curioso come benché si inizi con Caino primogenito, per descrivere il mestiere dei figli si inizia con Abele, sottolineando che era un "pastore", e successivamente Caino che era un "agricoltore", come per dire che Adamo ed Eva davano più peso ad Abele quasi come dire che Caino avesse disatteso le aspettative dei genitori.

Spesso noi genitori non seguiamo e stimoliamo le attitudini dei figli che non rispondono alle nostre aspettative e rimaniamo delusi dai figli che hanno attitudini diverse, e questo può creare competizione. E' indubbio che i due fratelli erano in competizione tra loro e che questa competizione fu alimentata dai genitori. Possiamo affermare che non sia diverso oggi? Quante volte le cronache nere e giudiziali mettono in evidenza questa competizione tra fratelli? che quando non ha risvolti tragici finisce in una contesa civilistica in tribunale su questioni economiche ?Per questo motivo la Torah richiama la nostra attenzione sul primo problema che come genitori dobbiamo affrontare nell'educazione di figli: rispettare le attitudini dei figli e non metterli in competizione. In questo modo si salvaguarda l'unità della famiglia.

Quando Caino e Abele presentarono il dono a D-O, Caino lo fece nel modo sbagliato, con l'animo sbagliato, in competizione con il fratello; non era importante il dono in se, come atto di gratitudine nei confronti di D-O sarebbe stato certo gradito, ma era importante con quale spirito/attitudine si faceva il dono a D-O. Questo è l'insegnamento. D-O nel dialogo richiamò Caino sull'atteggiamento, provocando una reazione affinché prendesse consapevolezza di "se" e suggerendo: perché sei abbattuto?  Già se opererai bene sarai esaltato; ed avvertendolo che se non dominava la sua indole sarebbe caduto: Il peccato sta coricato alla porta. Quando non dominiamo la nostra indole possiamo porre in essere azioni di cui poi ci pentiamo, quindi siamo richiamati ad un processo di "introspezione" ovvero di prendere consapevolezza sulle nostre debolezze caratteriali, e "dominarle", ed in questo modo possiamo elevarci.

Caino ignorò la raccomandazione di D-O " ma se tu non operi bene… Il peccato sta coricato alla porta" e cedette alla sua inclinazione raggirando il fratello in modo da colpirlo. La narrazione descrive, seppure sinteticamente, un altro aspetto che apre ad ulteriori riflessioni. Caino parlo ad Abele, e poi lo uccise. E' chiaro che questa breva citazione oltre a sotto intendere un raggiro, può fornirci anche un'altra riflessione: Abele è stato capace di spegnere la rabbia di Caino? O in modo ingenuo ha alimentato questa rabbia facendo al fratello, in buona fede, la morale?

 

Erminio David Petronio


LES MORTS INNOCENTS DE GAZA

 Au peuple français de la part de l'Italie Lettre ouverte à ceux qui manifestent contre Israël Benjamin Netanyahu peut ne pas plaire à ...