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domenica 23 novembre 2025

Immigrazione, natalità ed economia

 


Il movimento europeo della “remigrazione e riconquista”, oggi sostenuto da parti della destra e da una parte dell’opinione pubblica, nasce da problemi reali, ma li interpreta in modo parziale e propone soluzioni poco realistiche. Per capire perché queste proposte non funzionano, bisogna analizzare con precisione le cause strutturali che hanno portato l’Europa — e l’Italia in particolare — alla situazione attuale.

Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Italia ha vissuto un periodo di crescita economica e demografica: tra il 1946 e il 1960 si ha il boom delle nascite e la ricostruzione industriale. Manifattura e agricoltura richiedevano moltissima manodopera e la disponibilità di lavoro sosteneva naturalmente la natalità.

A partire dagli anni ’70-’80 iniziò invece una transizione profonda: il tasso di fecondità calò rapidamente fino a scendere sotto il livello di sostituzione generazionale (2,1 figli per donna). Mentre nascevano sempre meno bambini, aumentava l’aspettativa di vita. Il risultato è stato un Paese sempre più anziano, con un numero crescente di pensionati sostenuti da una popolazione attiva sempre più ridotta.

Oggi siamo nel pieno di questa crisi: l’Italia ha uno dei tassi di natalità più bassi al mondo (circa 1,2–1,3 figli per donna) e un rapido calo della popolazione in età lavorativa. Nonostante ciò, agricoltura, logistica, edilizia e alcuni settori industriali continuano ad avere bisogno di manodopera. È qui che entra in gioco la scelta europea, fatta dagli anni ’90 in poi: compensare il calo dei nati con l’immigrazione.

Ed è proprio qui che emerge la differenza decisiva.
L’immigrazione del passato — come quella degli italiani in America, in Belgio o in Svizzera — avveniva tra popolazioni che, pur diverse, condividevano un quadro culturale e religioso simile (cristianesimo o ebraismo). L’integrazione non era immediata, ma era possibile: nel giro di due o tre generazioni si creavano comunità pienamente integrate.

L’immigrazione contemporanea è profondamente diversa. Ma quando gli immigrati provengono da una cultura tribale è impensabile che essi si integrano, ma si aggregano e vivono in quartieri chiusi. Quindi la prima domanda che ci dobbiamo porre è: chi favoriamo nell’immigrazione, che popoli? La questione si aggrava quando l’immigrazione è caratterizzata da musulmani. Infatti l’immigrazione è una forma di jhad perché serve al processo di islamizzazione e di espansione dell’islam. Considerate che i musulmani praticano la poligamia, a fronte di una moglie ufficiali ne anno altre “sposate” solo religiosamente e con ogni donna fanno una media di 5 figli.  Figli che sosteniamo noi con la spesa sociale. Una parte significativa dei flussi proviene da paesi a maggioranza islamica, dove la struttura familiare, il modello sociale e la visione del rapporto tra religione e vita pubblica sono molto diversi e sono in contrasto con quelli europei. Dobbiamo constatare che:

  • molte comunità immigrate tendono a vivere in quartieri propri, non a mescolarsi;
  • i tassi di natalità sono molto più alti rispetto alle società europee;
  • la religione continua a essere un fattore identitario centrale;
  • l’integrazione culturale procede lentamente e spesso si ferma alla prima o seconda generazione.

È evidente che l’immigrazione di popolazioni numerose, culturalmente molto distanti e con tassi di natalità più elevati genera uno squilibrio strutturale tra una società europea che non fa più figli e comunità che mantengono ritmi demografici molto più alti.

In altre parole, la crisi non deriva semplicemente dall’immigrazione, ma da una denatalità autoindotta che ha reso l’Europa demograficamente fragile. Abbiamo anteposto il tempo libero, il consumo e l’individualismo alla costruzione di famiglie numerose. Abbiamo preferito proteggere il presente invece di costruire il futuro. Le generazioni precedenti, pur con più difficoltà economiche, accettavano sacrifici che oggi riteniamo eccessivi.

Il risultato è davanti ai nostri occhi: una società che invecchia rapidamente, che ha bisogno di lavoratori e che per colmare il vuoto si affida a flussi migratori in larga parte provenienti da contesti islamici. Flussi che, per motivi culturali e religiosi, non sempre si integrano facilmente.

La conseguenza è un duplice squilibrio:

  • demografico, perché gli europei fanno pochi figli mentre le comunità immigrate crescono;
  • culturale, perché l’identità europea si indebolisce mentre crescono identità parallele.

Per chi crede — cristiani o ebrei — la questione non è solo sociale ma anche spirituale: la natalità è una benedizione, una mitzvà, una vocazione. Rinunciare ai figli per timore economico o per non sacrificare il “tempo libero” significa privare la nostra civiltà della sua continuità.
La responsabilità ricade sia sulle coppie che potrebbero costruire famiglie numerose, sia sui genitori che non incoraggiano i propri figli a farlo. Non possiamo ragionare solo sul presente: il futuro si fonda sulle nuove generazioni. E senza bambini, nessuna società sopravvive, indipendentemente da quanta immigrazione riceva.

 


domenica 6 aprile 2025

LA CASA NEGATA: GIOVANI, FAMIGLIE E IL NUOVO GHETTO DELL’ABITARE

 


Un sogno sempre più irraggiungibile.
È questa la realtà che si presenta a migliaia di giovani coppie, studenti e famiglie monoreddito che cercano di costruirsi una vita autonoma. Trovare una casa oggi in Italia, specie nelle grandi città come Roma e Milano, è diventato un lusso riservato a pochi. Se non sei figlio di un professionista, di un imprenditore, di un politico o di un dirigente con un solido patrimonio immobiliare alle spalle, il mercato ti esclude o ti espelle.

Dati alla mano, la situazione è drammatica.
Secondo il rapporto ISTAT 2023, oltre il 40% dei giovani under 35 vive ancora nella casa dei genitori, non per scelta, ma per necessità economica. A Roma, l’affitto medio di un monolocale ha superato i 900 euro mensili, mentre a Milano si sfiorano i 1.100 euro. Per studenti universitari o neolaureati con contratti precari, accedere a un affitto regolare è un’impresa titanica.

E non basta poter pagare: ai futuri inquilini vengono richieste garanzie spropositate, come fideiussioni bancarie o genitori garanti con redditi alti, condizioni che di fatto escludono la maggior parte delle persone normali. Come se si stesse richiedendo un mutuo e non la semplice locazione di un piccolo appartamento.

Le famiglie monoreddito e le madri single sono ancora più penalizzate.
Secondo il CENSIS, 1 famiglia su 5 in Italia vive in condizioni di vulnerabilità abitativa. Il risultato? Una crescente marginalizzazione sociale. Nel frattempo, in ogni angolo delle nostre città spuntano Bed&Breakfast e affitti turistici: il numero di B&B a Roma è aumentato del 29% negli ultimi cinque anni (fonte: Confcommercio 2024), riducendo ulteriormente l’offerta di immobili destinati all’affitto residenziale.

Ma quali sono le cause di questa emergenza abitativa?
Una parte della sinistra politica tende a indicare nella “proprietà privata” la radice del problema, legittimando, di fatto, pratiche come l’occupazione abusiva delle case. Non a caso, l’Onorevole Ilaria Salis, eletta al Parlamento Europeo nonostante una pendenza penale, ha più volte sostenuto l’occupazione come strumento di rivendicazione sociale. Questo messaggio, già di per sé pericoloso, si somma all'azione di gruppi criminali organizzati, spesso composti da immigrati irregolari o comunità rom, che occupano illegalmente appartamenti pubblici e privati.

A questo si aggiunge un altro fenomeno sommerso:
Sempre più spesso, persone che hanno perso il lavoro smettono di pagare l'affitto e, protette da una normativa estremamente garantista, restano negli immobili per mesi o anni, rendendo complesso e costoso il procedimento di sfratto. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, nel 2023 ci sono stati oltre 53.000 sfratti esecutivi pendenti, ma solo il 18% è stato effettivamente eseguito.

Il quadro si complica ulteriormente quando si affrontano le occupazioni abusive. In Italia, il recupero di un immobile occupato è spesso lento e ostacolato da interpretazioni giurisprudenziali che, in nome dell’inclusione sociale, sacrificano i diritti dei proprietari.

E allora, viene naturale chiedersi: perché i proprietari oggi chiedono così tante garanzie? Perché preferiscono gli affitti brevi turistici invece di rischiare lunghi contenziosi legali? La risposta non è nella "cattiveria" del privato, ma in un sistema legislativo che penalizza chi affitta in modo regolare e tutela chi viola le regole.

La vera radice del problema è un impianto normativo sbagliato, che protegge l’illegalità e disincentiva il mercato residenziale. Leggi confuse, procedure di sfratto farraginose e una magistratura spesso imbrigliata da pregiudizi ideologici creano un ambiente tossico, in cui il diritto alla casa si trasforma in privilegio per pochi.

In questo contesto, senza sponsor politici o appoggi influenti, trovare casa diventa quasi impossibile.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: giovani costretti a restare a casa dei genitori, famiglie spezzate, studenti fuori sede in difficoltà cronica. E intanto il tessuto sociale delle nostre città si sfilaccia, mentre nessuno sembra voler cambiare davvero le regole del gioco.


giovedì 13 marzo 2025

IN UN PAESE DIVISO, ANCHE LA DEMOCRAZIA SI SGRETOLA: IL CASO ITALIA TRA CONFLITTO POLITICO E CRISI SOCIALE

 

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"Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi." Questo monito antico, pronunciato da Gesù nel Vangelo di Marco (3,24-25), riecheggia oggi con inquietante attualità nella situazione politica italiana. E non è un ammonimento isolato: anche nella Torah, nei testi di Isaia (19,2) e 2 Samuele (3,1), si avverte che la divisione interna di una casa o di un regno ne prelude alla rovina.

Storia antica? Affatto. La cronaca politica italiana sembra, infatti, riprodurre fedelmente questi scenari, incapace di imparare dagli errori del passato. La divisione interna, lungi dall'essere soltanto una questione ideologica, si traduce in lacerazioni sociali, impoverimento economico e degrado culturale.

Secondo un recente rapporto dell'Istat (2024), oltre il 65% degli italiani ritiene che il linguaggio politico sia divenuto "aggressivo" e "delegittimante", mentre il 62% afferma che il dibattito pubblico sia più orientato allo scontro personale che alla proposta di soluzioni concrete.

Nei talk show televisivi, il confronto sui contenuti è ormai un miraggio: slogan, accuse reciproche, etichette infamanti come "comunisti", "fascisti", "complottisti", "clericali" sostituiscono ogni tentativo di dialogo costruttivo. Il vero obiettivo non è risolvere problemi, ma consolidare posizioni di potere all'interno dei partiti.

E mentre il cittadino rimane prigioniero di problemi irrisolti, la politica riesce a trovare una sorprendente unità su un solo tema: il denaro.
L’ultimo scandalo? L’aumento del finanziamento pubblico ai partiti, passato da 25 a 42 milioni di euro annui con voto bipartisan. Solo l'intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha evitato un incremento ancora maggiore.
Nonostante il tentativo di mascherare l’operazione abbassando l'aliquota, i fondi non destinati esplicitamente dai cittadini vengono comunque redistribuiti ai partiti. Uno stratagemma che appare ancora più scandaloso se si considera che l’astensione elettorale ha raggiunto il 41% alle ultime elezioni europee, il massimo storico.

Sanità, sicurezza, casa e lavoro? Questi temi cruciali restano senza una sintesi politica. I politici, al riparo di assicurazioni private e privilegi, sembrano incapaci di fornire risposte efficaci, mentre aumentano i costi energetici e cresce il debito pubblico, ora al 137% del PIL secondo Eurostat.

La minaccia interna: l'Islam radicale e il fallimento dell'integrazione

In un'Italia politicamente frantumata, si fa strada un'altra crisi: quella identitaria.
La Commissione Europea ha segnalato nel 2023 che l'Italia è tra i paesi UE con il tasso più basso di integrazione degli immigrati di origine musulmana, evidenziando una crescente marginalizzazione sociale e culturale.

Secondo il Ministero dell'Interno, oltre il 60% dei reati nelle aree metropolitane è commesso da stranieri, molti dei quali di fede islamica. Al contempo, cresce l'occupazione abusiva di case popolari, l'uso improprio degli spazi pubblici e le denunce di molestie ai danni di donne italiane.

La sinistra democratica, in nome di diritti e tolleranza, appare spesso inconsapevole di prestarsi come cavallo di Troia per frange dell'Islam più radicale. Un paradosso tragico: i valori liberali che la sinistra ha difeso per decenni – laicità, uguaglianza di genere, libertà di espressione – vengono oggi minati da una cultura che li rigetta apertamente.

Dall'altra parte, la destra democratica si arena nella distinzione tra "immigrazione regolare" e "irregolare", senza interrogarsi a fondo su chi entra e quali valori porta con sé.
Il rischio? Favorire l’ingresso di gruppi culturali non integrabili, che non intendono assimilarsi ma piuttosto sostituire il modello sociale europeo.

Come osservava lo storico Bernard Lewis già negli anni '90, "L'Europa rischia di essere conquistata non con la spada, ma con la demografia e la cultura."
Una profezia che, nella frammentazione e nella debolezza attuali, rischia di avverarsi.

Conclusione: Dividersi è Morire

La storia insegna, la politica dimentica.
Se la casa è divisa contro se stessa, come ammonivano i testi sacri, non potrà reggersi. In Italia oggi si assiste ad una drammatica replica di questo schema, mentre il tempo a disposizione per correggere la rotta si assottiglia.
Un popolo diviso è un popolo destinato a soccombere.

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