Il paradosso della sinistra: quando i diritti si piegano all’ambiguità ideologica
Per decenni, la sinistra europea è stata il baluardo dei diritti umani, dell’internazionalismo democratico, della lotta alle disuguaglianze e alla violenza politica. Eppure, oggi, nel cuore dell’Europa — e in modo particolarmente evidente in Italia — assistiamo a una mutazione profonda: il sostegno alla causa palestinese, un tempo espresso nei toni della diplomazia e della solidarietà con i civili, si è trasformato in qualcosa di più oscuro e pericoloso. In alcuni ambienti, si è smesso di distinguere tra il popolo palestinese e Hamas, tra resistenza legittima e terrorismo brutale, tra critica a Israele e antisemitismo.
A veicolare e amplificare questa confusione sono anche settori dell’informazione cattolica e progressista, tradizionalmente vicini alla cultura della pace e del dialogo. Ma proprio qui risiede il nodo più critico: testate come Avvenire e Famiglia Cristiana, in più occasioni, hanno rilanciato narrazioni costruite da fonti parziali e spesso manipolate, come quelle diffuse da Al Jazeera. Senza un’adeguata contestualizzazione, i reportage su Gaza finiscono per dipingere un’immagine in bianco e nero del conflitto, dove Israele è sempre l’aggressore e Hamas scompare dallo scenario, assente o vittima. Un'assenza che parla più di mille parole.
Dai cortei universitari alle tavole dei ristoranti: quando il radicalismo esce dai margini
Il caso della Taverna a Santa Chiara di Napoli, che nel 2025 ha rifiutato il servizio a una famiglia israeliana, non è un semplice incidente. È un segnale d’allarme. Il fatto, apertamente discriminatorio, è stato difeso da una parte della sinistra italiana e da alcune sigle pro-Palestina, che hanno trasformato l’intolleranza in una “forma di resistenza”.
Slogan come “boicottaggio legittimo” o “l’antisionismo non è antisemitismo” sono stati ripetuti come mantra per giustificare un gesto che, in qualunque altro contesto, sarebbe stato bollato per ciò che è: odio su base etnica.
Ma questa ambiguità non è un caso isolato. La vediamo nelle università italiane ed europee, dove le occupazioni e i cortei pro-Palestina spesso finiscono per diventare vetrine di propaganda antisraeliana, in cui il confine tra attivismo e radicalizzazione si fa sempre più labile. Dove vengono inneggiati i “martiri di Gaza” ma mai citati i bambini israeliani rapiti o le donne stuprate il 7 ottobre. È un silenzio colpevole, amplificato e avallato da una parte dell'informazione che ha smesso di interrogarsi sulle fonti.
Quando la sinistra diventa un cavallo di Troia
In nome di una battaglia contro “l’imperialismo”, si chiude un occhio — o entrambi — su attentati, rapimenti, massacri di civili. Si tace, o peggio si giustifica, il terrorismo di Hamas, considerato un “atto estremo ma comprensibile”. È il trionfo del relativismo morale, della deriva ideologica che trasforma il diritto alla sicurezza in un privilegio borghese e la violenza in uno strumento politico accettabile — purché rivolto verso l’“oppressore”.
Così facendo, la sinistra traduce la propria storia di lotta per i diritti in una parodia crudele, in cui la discriminazione antiebraica diventa tollerabile se mascherata da militanza, e in cui l’infiltrazione islamista in associazioni, circoli studenteschi e ONG viene ignorata nel nome del “dialogo interculturale”.
Le conseguenze della complicità ideologica
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L’odio normalizzato
Quando si accetta la narrazione di Hamas o si legittimano attacchi contro civili come risposta politica, si finisce per normalizzare l’odio come strumento di lotta. Le intifade, gli attentati suicidi, le esecuzioni sommarie non vengono più condannate: vengono spiegate, comprese, persino romanticizzate. -
La fine della credibilità democratica
Sostenere chi discrimina e chi minaccia lo Stato di diritto significa allontanarsi dai valori progressisti. La sinistra perde presa sui ceti popolari, spaventati da un’identità che sembra più vicina a Gaza City che a Piazza dei Cinquecento. Si scivola in una dimensione minoritaria, autoreferenziale, in cui l’ideologia conta più della realtà. -
L’apertura alla radicalizzazione
Molte sigle pro-palestinesi che sfilano nelle piazze europee non sono associazioni umanitarie, ma vere e proprie ramificazioni culturali — e in alcuni casi logistiche — di reti estremiste. Aderire acriticamente a queste realtà significa aprire le porte a una radicalizzazione reale, non solo ideologica ma anche operativa, che può sfociare in violenza urbana, antisemitismo militante e instabilità sociale.
La democrazia sotto attacco: un rischio emulativo
Il problema non si ferma alla questione palestinese. Se l’Occidente si mostra disposto a cedere politicamente e culturalmente alla pressione della violenza organizzata, altri gruppi — separatisti, identitari, etnonazionalisti — potrebbero replicare lo schema.
La lezione che se ne trae è pericolosa: “basta essere abbastanza violenti, mediatici e vittimisti per entrare nel dibattito democratico”. In questo modo, la democrazia viene usata come trampolino per la propria distruzione.
Una chiamata alla responsabilità
La sinistra, se vuole tornare ad avere un ruolo credibile nel XXI secolo, deve ritrovare il coraggio di distinguere tra la causa e il metodo.
Sostenere la dignità del popolo palestinese non può significare giustificare chi lo opprime dall’interno — come Hamas — e ancor meno usare la sua causa per sdoganare odio, violenza e fanatismo.
Non esiste progresso senza sicurezza.
Non esiste giustizia che tolleri il terrorismo.
E non esiste sinistra che possa dirsi democratica se smette di condannare ogni forma di violenza politica.
Perché chi oggi tollera, giustifica o silenzia, domani sarà complice