Il neoeletto Papa Leone XIV sceglie di inaugurare il suo pontificato con una visita pastorale a Nicea, come se bastasse tornare sul luogo del “delitto originario” per rinsaldare un’eredità teologica vecchia di diciassette secoli. Nicea è infatti il simbolo della nascita del cattolicesimo imperiale, quello costruito non tanto sulla predicazione evangelica, quanto sulle esigenze politiche di un Impero in decomposizione.
Nel IV secolo, la Chiesa è già diventata un organismo profondamente greco-romano, guidato da vescovi che, in grandissima parte, provengono da un retroterra pagano. Sono convertiti di prima o seconda generazione, cresciuti più nei culti misterici che nella Torah. E lo si vede: a Nicea l’atmosfera è tutto fuorché giudaica. Non è un caso che la rappresentanza giudeo-cristiana sia praticamente inesistente. Chi mai avrebbe potuto sentirsi al sicuro in un clima in cui persino l’imperatore Costantino, nella sua lettera sulla Pasqua, si lancia in invettive violentissime contro i Giudei, definendo le loro usanze “detestabili” e usando un linguaggio apertamente ostile? È difficile non parlare di antisemitismo primordiale, soprattutto se si guarda all’esito: il concilio decide di separare la Pasqua cristiana dal calendario ebraico proprio per prendere le distanze dal popolo che aveva dato i natali a Gesù.
La decisione dottrinale principale di Nicea – che il Figlio è “della stessa sostanza del Padre” – non nasce in una torre d’avorio teologica, ma nel pieno di un attacco politico e ideologico contro l’ultimo residuo di ebraicità all’interno del cristianesimo. Ario, con il suo richiamo al pensiero ebraico e biblico, è il bersaglio perfetto: sostiene che il Figlio sia stato creato da Dio, in linea con la tradizione rabbinica sulla dignità dell’uomo fatto “a immagine e somiglianza” del Creatore (Gen 1:26; Gen 5:1–2; Sal 8; Sal 82; ecc.). Tutta una visione, quella biblica, che presenta l’uomo come riflesso della divinità, non come Dio stesso.
Ma ammettere che Gesù fosse un essere creato – per quanto unico – avrebbe distrutto il progetto politico che stava nascendo: costruire un’istituzione nuova che potesse dichiararsi la vera erede delle promesse fatte da Dio ad Abramo. Per questo la posta in gioco della disputa con Ario era enorme. Rendere Gesù inequivocabilmente Dio significava che la Chiesa, tramite il primato di Pietro sancito da Matteo 16,18–19 e Giovanni 21,15–17, poteva autoproclamarsi nuovo “popolo eletto”, surclassando Israele e relegando gli ebrei nella categoria dei decaduti, dei puniti, dei “rigettati dal Messia”.
Da questo meccanismo teologico-narrativo nasce il fil rouge che accompagna secoli di storia cristiana: prima l’antisemitismo teologico, poi quello sociale e politico e infine il suo derivato moderno, l’antisionismo, costruito sulla pretesa che “gli ebrei hanno perso il diritto alla terra promessa”. Una logica innescata proprio a Nicea, dove l’ebraismo viene espulso dal cristianesimo non solo liturgicamente ma teologicamente.
Bisognerà aspettare il XX secolo, dopo tragedie immani e dopo che la teologia dell’“Israele decaduto” aveva avvelenato per secoli l’immaginario cristiano, perché la Chiesa cattolica provi a fare marcia indietro. Con il Concilio Vaticano II e il documento Nostra Aetate (1965) si riconosce finalmente che l’elezione del popolo ebraico non è mai stata revocata. Giovanni Paolo II lo ribadirà con una chiarezza che suona quasi come una confessione: “L’Alleanza fatta da Dio con Israele non è mai stata revocata”.
Eppure, nonostante queste dichiarazioni tardive e necessarie, il seme avvelenato piantato a Nicea non è mai stato completamente estirpato. Rimane nei secoli, sotto la superficie, come un’eredità ingombrante che nessuna visita pastorale potrà davvero cancellare.