Il Sionismo inteso come ritorno nella terra promessa, nel Nuovo Testamento
Il Sionismo inteso come ritorno nella terra promessa, nel Nuovo Testamento
Protocolli
dei Savi di Sion o degli Anziani di Sion o dei
savi Anziani di Sion
I Protocolli
dei Savi di Sion (o Anziani di Sion) sono uno dei più famigerati
falsi documenti della storia moderna. Redatti nei primi anni del XX secolo in
Russia dall’Ochrana, la polizia segreta zarista, avevano l’obiettivo di
alimentare l’odio contro gli ebrei e deviare il malcontento sociale dell’Impero
russo. Il testo, presentato come la trascrizione di un piano segreto elaborato
da capi ebrei e massoni per conquistare il mondo attraverso il controllo dei
media, della finanza e della politica, fu pubblicato per la prima volta nel
1903 da Pavel Kruševan e diffuso poi da Sergej Nilus nel 1905.
La falsità
del documento fu dimostrata già nei primi anni successivi alla sua
pubblicazione: nel 1921 The Times e nel 1924 la Frankfurter Zeitung
dimostrarono che i Protocolli erano un plagio di un’opera satirica francese
del 1864, Dialogo agli Inferi tra Machiavelli e Montesquieu di Maurice
Joly, scritta contro Napoleone III. Da essa furono riprese intere frasi,
adattate in chiave antisemita. Altri elementi derivavano dal romanzo Biarritz
di Hermann Goedsche, che descriveva una riunione immaginaria di rabbini nel
cimitero ebraico di Praga.
Nonostante
le prove schiaccianti del plagio, il testo trovò enorme diffusione. In Russia
venne usato per giustificare i pogrom e le repressioni antiebraiche; dopo la
Rivoluzione bolscevica del 1917, divenne un’arma ideologica nelle mani delle
fazioni controrivoluzionarie, che identificarono il bolscevismo come parte di
una cospirazione ebraica mondiale. Negli anni Venti e Trenta, i Protocolli
furono poi adottati dalla propaganda nazista tedesca: Hitler li citò nel Mein
Kampf, considerandoli “prova” della natura malvagia degli ebrei. In
Germania divennero lettura obbligatoria nelle scuole e uno dei pilastri della
giustificazione dello sterminio.
Il processo
di Berna del 1935, in Svizzera, confermò ufficialmente la loro falsità,
definendoli “plagio e letteratura oscena”. Tuttavia, la loro diffusione non
cessò: Henry Ford ne finanziò la pubblicazione di mezzo milione di copie negli
Stati Uniti; in Italia vennero rilanciati da Giovanni Preziosi e Julius Evola;
nel mondo arabo e islamico restano tuttora strumenti di propaganda
antisionista.
Il contenuto
dei Protocolli si articola in ventiquattro capitoli che descrivono una
presunta strategia per dominare il mondo: manipolare l’opinione pubblica
tramite la stampa, corrompere i governi, distruggere la morale cristiana,
fomentare rivoluzioni e crisi economiche. Gli “anziani di Sion” vi si vantano
di guidare i gentili (i goyim) verso la rovina morale e politica, fino
all’instaurazione di una teocrazia ebraica globale. In realtà, queste idee non
rappresentano altro che la proiezione paranoica dei pregiudizi antisemiti
dell’epoca, che attribuivano agli ebrei la colpa dei mutamenti sociali e
politici legati alla modernità.
Gli studiosi
e i tribunali di tutto il mondo hanno da tempo riconosciuto i Protocolli
come un falso costruito con finalità di propaganda e di persecuzione. Tuttavia,
il loro impatto culturale è stato duraturo: rappresentano l’archetipo delle
moderne teorie del complotto e continuano a essere riproposti da movimenti
estremisti, antisemiti e negazionisti. L’opera non documenta alcun “piano
ebraico di dominio”, ma solo la storia di una menzogna che, costruita ad arte,
ha alimentato l’odio e contribuito a tragedie immani come la Shoah.
Le
leadership occidentali, laiche o di matrice cristiana, appaiono oggi prive di
una reale consapevolezza della cosiddetta “questione islamica”. Analizzano gli
eventi globali con gli “occhiali” della propria cultura, fondata sui diritti
umani e sull’universalismo etico, e partono dal presupposto che anche le altre
civiltà debbano condividere e apprezzare i valori cardine delle democrazie
occidentali. È un errore di prospettiva: un corto circuito culturale che
impedisce di cogliere la diversa matrice valoriale e teologica delle grandi
religioni monoteistiche.
Gli ebrei
della diaspora, ad esempio, hanno storicamente interpretato la “non
assimilazione” non come chiusura, ma come salvaguardia della propria identità:
preghiere, festività, regole alimentari e comportamenti che ne mantengono viva
la tradizione. Il loro dialogo con cristianesimo e islam è spesso più uno
strumento di presenza sociale e politica che una reale ricerca di confronto
teologico. In molti casi, non conoscono in profondità le sfumature del
cristianesimo (nelle sue componenti cattolica, protestante ed evangelica) o
dell’islam, quasi che parlarne apertamente sia imbarazzante.
Dall’altro
lato, i cattolici portano con sé l’eredità teologica della teoria della
sostituzione, secondo la quale la Chiesa avrebbe preso il posto di Israele
nel piano divino: una visione che, di fatto, ha generato nel tempo un
atteggiamento di imbarazzo – se non di ostilità – nei confronti dello Stato
d’Israele. I protestanti, pur non essendo anti-israeliani, tendono perlopiù a
collocarsi su posizioni politiche progressiste, mostrando una certa reticenza a
esprimere un sostegno esplicito. Solo gli evangelici, per motivi teologici,
riconoscono apertamente il ruolo spirituale di Israele e il suo diritto alla
terra, convinti che nel disegno divino esso giochi un ruolo essenziale.
E l’islam?
Qui si incontra il silenzio.
Nonostante le numerose occasioni mediatiche, raramente gli esponenti musulmani
denunciano pubblicamente gli atti di terrorismo o di violenza compiuti in nome
della loro fede. In televisione, ripetono che “l’islam è una religione di
pace”, prendendo le distanze dai violenti senza mai affrontare apertamente la
questione teologica o politica che giustifica certi comportamenti. Come in
altri movimenti ideologici del passato, si tende a separare l’atto violento dal
credo, classificandolo come “caso isolato”.
Un dialogo fondato su tali premesse non è un dialogo, ma una fonte di
confusione.
Il dialogo che non serve
Il dialogo
interreligioso tra le grandi fedi monoteistiche, a ben vedere, non esiste — non
per volontà ostile, ma perché le premesse stesse lo rendono inutile o
impossibile.
L’ebraismo
non ha bisogno di dialogare per affermare la propria verità: non cerca
conversioni, riconosce a ogni uomo il diritto di praticare la propria fede,
purché rispetti le leggi universali che D-o ha rivelato all’umanità — il
rispetto della famiglia, della vita, degli animali e della natura. Il suo
compito non è convertire, ma testimoniare l’unicità divina nel mondo.
Il
cristianesimo, al contrario, ha una missione dichiaratamente universale:
proclamare la salvezza in Gesù Cristo e invitare l’uomo alla conversione. È
quindi per sua natura una religione del “dialogo”, inteso come annuncio. Pur
avendo abbandonato da secoli l’uso della forza, conserva l’idea di un messaggio
di pace da portare al mondo.
L’islam,
invece, concepisce la propria missione come universale e normativa: ha
l’obbligo di islamizzare i popoli, cioè di sottometterli all’autorità
divina (Allah). Tale obiettivo è perseguito attraverso tre canali: la jihād
(lo “sforzo” anche armato), il finanziamento della propaganda e l’espansione
demografica. La strategia è chiara: la demografia è il tallone d’Achille di
un’Europa secolarizzata e priva di slancio spirituale.
Ma cosa intendiamo per dialogo?
Se per
“dialogo” intendiamo la capacità di ascoltare l’altro, ipotizzando che possa
avere ragione, allora esso è possibile solo nel campo laico, dove le verità non
sono assolute.
Nell’ambito religioso, invece, dove la verità è rivelata e non negoziabile, il
dialogo in senso stretto è impossibile.
Se però intendiamo il dialogo come conoscenza reciproca — un confronto
culturale per comprendere la visione del mondo dell’altro e arricchire la
propria — allora esso può essere fecondo, soprattutto tra ebraismo e
cristianesimo, che condividono testi sacri (Torah e Bibbia) e una comune
matrice etica: quella giudeo-cristiana che ha plasmato la civiltà occidentale.
Diverso è il
caso dell’islam, i cui testi fondamentali, Corano e Sunna, esprimono valori non
solo differenti, ma spesso in contrasto con quelli occidentali.
Un esempio emblematico riguarda l’etica della verità:
Per ebrei e
cristiani la menzogna è sempre un peccato; per l’islam può essere ammessa in
certe circostanze. Da qui nasce l’ambiguità che vediamo nei media, quando imam
o portavoce islamici negano la connessione tra violenza e fede, o minimizzano
la condizione femminile nel mondo musulmano. È una forma di dissimulazione
ammessa dalle loro stesse fonti religiose.
Conclusione: la necessità della lucidità
Insistere
sul “dialogo interreligioso” come strumento politico è un grave errore.
Così facendo, inganniamo noi stessi, illudiamo le future generazioni e,
soprattutto, diamo ai nostri leader politici l’idea che un dialogo paritario
tra religioni sia possibile.
Ma non lo è, almeno non nei termini in cui viene proposto oggi.
Serve
piuttosto comprendere le strategie culturali e teologiche che muovono il
mondo islamico, per affrontarle con lucidità e rispetto, ma senza ingenuità.
Solo riconoscendo le differenze si può costruire un vero equilibrio tra le
civiltà.
In questa prospettiva, la Risoluzione 181 (II) dell’Assemblea Generale dell’ONU, approvata il 29 novembre 1947, rappresenta la premessa giuridica per la fondazione dello Stato di Israele.
La risoluzione prevedeva la spartizione della Palestina mandataria in due Stati indipendenti — uno ebraico e uno arabo — con Gerusalemme posta sotto amministrazione internazionale.
Il 14 maggio 1948, David Ben Gurion, capo dell’Agenzia Ebraica, proclamò ufficialmente la nascita dello Stato di Israele a Tel Aviv, poche ore prima della fine del mandato britannico.
Il giorno seguente, il 15 maggio 1948, gli eserciti di Egitto, Siria, Giordania, Libano e Iraq attaccarono il nuovo Stato, dando inizio alla prima guerra arabo-israeliana. Israele respinse l’aggressione e conquistò territori oltre i confini previsti dal piano ONU.
Il rifiuto arabo del piano di spartizione ebbe conseguenze profonde:
gli stessi Stati arabi che dichiararono guerra a Israele rifiutarono di fondare uno Stato palestinese, lasciando così un vuoto politico. I territori occupati da Israele dopo la guerra del 1948 non appartenevano a un’entità sovrana palestinese, ma erano ex territori del mandato britannico, non rivendicati formalmente dagli Stati arabi. Israele, quindi, si trovò ad amministrare territori privi di sovranità riconosciuta.
Spesso si dimentica che gli ebrei non “ritornarono” semplicemente in Palestina nel Novecento, ma non se ne erano mai del tutto andati.
Dopo la distruzione del Secondo Tempio (70 d.C.) e la rivolta di Bar Kokhba (132–135 d.C.), una parte della popolazione ebraica continuò a vivere nella regione, soprattutto in Galilea, Gerusalemme, Hebron e Safed.
Nei secoli successivi — sotto domini bizantino, arabo e ottomano — le comunità ebraiche mantennero una presenza stabile e riconosciuta, con centri religiosi, scuole rabbiniche e attività economiche.
Durante il periodo ottomano (1517–1917), gli ebrei erano presenti nelle cosiddette “quattro città sante” dell’ebraismo: Gerusalemme, Hebron, Safed e Tiberiade.
Quando nel 1917 la Palestina passò sotto Mandato britannico, vivevano nel territorio circa 60–80.000 ebrei, molti dei quali discendenti di famiglie autoctone presenti da secoli.
Le successive ondate migratorie (aliyot) provenienti dall’Europa orientale, dallo Yemen e dal Nord Africa si innestarono dunque su una continuità storica preesistente.
Per secoli, ebrei e arabi vissero fianco a fianco, spesso in rapporti di collaborazione commerciale e culturale.
La contrapposizione etnica e politica emerse solo in epoca moderna, con la nascita del sionismo politico e del nazionalismo arabo, due ideologie parallele ma contrapposte che trasformarono un’antica convivenza in un conflitto identitario.
Solo quarant’anni dopo la fondazione di Israele, il 15 novembre 1988, durante una riunione ad Algeri, il Consiglio Nazionale Palestinese proclamò simbolicamente la nascita dello Stato di Palestina.
Fu un atto politico e simbolico, non sostenuto da un controllo territoriale reale: un’espressione di autodeterminazione del popolo palestinese, che in larga parte era composto da profughi provenienti da Egitto e Giordania.
La proclamazione richiamava i confini del mandato britannico e il piano ONU del 1947, che prevedeva due Stati, ma senza che questi fossero mai realmente nati.
Tra il 1948 e il 1988, la regione fu scossa da quattro guerre principali — la Crisi di Suez (1956), la Guerra dei Sei Giorni (1967), la Guerra del Kippur (1973) e l’invasione del Libano (1982) — tutte originate da iniziative militari arabe.
Nel frattempo, la Carta delle Nazioni Unite (1945) sanciva, all’articolo 2, paragrafo 4, che gli Stati devono astenersi dall’uso della forza contro l’integrità territoriale di altri Stati.
Ma questo principio era inapplicabile alla Palestina: uno Stato palestinese non esisteva, e la sua mancata esistenza era il risultato diretto del rifiuto arabo del 1947.
Tra il 1948 e il 1974 si registrarono 19 attentati terroristici attribuiti a gruppi palestinesi.
L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), nata nel 1964, ottenne nel 1974 il riconoscimento da parte dell’ONU come “unico legittimo rappresentante del popolo palestinese”.
Alla luce di queste premesse, la narrazione secondo cui “Israele occupa la Palestina” risulta giuridicamente imprecisa.
Israele amministra territori contesi, non appartenenti a uno Stato sovrano.
Secondo la Convenzione di Montevideo del 1933, per essere considerato Stato, un’entità deve possedere quattro elementi: popolazione stabile, territorio definito, governo effettivo e capacità di relazioni internazionali.
La Palestina, in assenza di un effettivo controllo territoriale e di una sovranità riconosciuta, non soddisfa pienamente questi criteri.
Dopo la proclamazione di Israele nel 1948, la Lega Araba ne rifiutò il riconoscimento, considerandolo una “creazione illegittima sul territorio arabo”.
Solo nel 1979, l’Egitto, membro fondatore, firmò con Israele il Trattato di pace di Camp David, primo passo verso una normalizzazione diplomatica.
Negli anni successivi, anche altri Paesi arabi — Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan — hanno stabilito relazioni ufficiali con Israele attraverso gli Accordi di Abramo (2020).
Tuttavia, la Lega Araba nel suo insieme continua a non riconoscere formalmente Israele, condizionando ogni riconoscimento alla creazione di uno Stato palestinese sovrano.
Alla base di questo rifiuto resta una convinzione radicata: la nascita di Israele sarebbe stata imposta dalle potenze occidentali dopo l’Olocausto, senza il consenso delle popolazioni arabe locali, che all’epoca costituivano la maggioranza.
Il conflitto israelo-palestinese non è solo politico, ma profondamente religioso e simbolico.
Per i musulmani, Gerusalemme Est è la capitale ideale del futuro Stato palestinese e la terza città santa dell’Islam.
Per gli ebrei, invece, Gerusalemme (Yerushalayim) è la città sacra per eccellenza, menzionata oltre 600 volte nella Bibbia ebraica:
la città di Davide, sede del Primo Tempio di Salomone, e luogo del sacrificio di Isacco.
Per la tradizione ebraica, Gerusalemme è il punto d’incontro tra Dio e il popolo d’Israele, la dimora della presenza divina (Shekhinah) e il simbolo eterno del legame con la propria terra.
La nascita di un “popolo palestinese” come entità politica moderna ha avuto anche la funzione di rafforzare la rivendicazione araba sull’intero territorio della Palestina storica, secondo lo slogan “dal fiume al mare”.
Da qui, la formula diplomatica “due popoli, due Stati” appare più come un ideale occidentale che come una soluzione realistica, poiché ignora le profonde radici religiose e culturali del conflitto.
Le tregue e gli accordi temporanei — come la liberazione di ostaggi o i cessate il fuoco — non rappresentano una pace duratura, ma solo pause tattiche in un conflitto che, per una parte del mondo arabo e islamico, può dirsi concluso solo con il pieno controllo islamico della Palestina.
Due frasi,
due visioni contrapposte, ma ripetute con la stessa leggerezza di chi non ne
comprende fino in fondo il significato. Da qui la metafora: da un lato i “pappagalli”,
le leadership occidentali che ripetono uno slogan ormai svuotato; dall’altro i “lupi”,
i leader palestinesi, coerenti con i propri principi ideologici e religiosi.
I “pappagalli” occidentali: slogan senza sostanza
Le classi
politiche europee e statunitensi continuano a sostenere la soluzione “due
popoli, due Stati” come se fosse un dato di fatto politico. In realtà, questo
progetto non è mai stato accettato né perseguito in modo coerente dai
principali attori arabi e palestinesi.
Sin dalla Risoluzione
ONU del 1947 sulla spartizione della Palestina, la maggioranza dei Paesi
arabi ha rifiutato la creazione di uno Stato palestinese accanto a uno
ebraico. Il motivo, spesso frainteso in Occidente, non è semplicemente
politico o anticoloniale, ma teologico e giuridico: secondo il
pensiero islamico classico, una terra definita “islamica” non può essere
governata da non musulmani.
La base giuridico-religiosa: dār al-Islām
La dottrina
islamica si fonda su versetti coranici e tradizioni profetiche che definiscono
come un territorio debba entrare a far parte della comunità islamica (dār
al-Islām).
Negli Hadith
e nella Sunna si trovano esempi concreti: Medina, Mecca e Khaybar furono
integrate nella comunità islamica dopo resa o conquista; le lettere inviate dal
Profeta ai sovrani vicini invitavano alla sottomissione religiosa e politica.
“Dal fiume al mare”: il significato reale
In questo
contesto, lo slogan “Dal fiume al mare” assume un significato ben preciso: la
Palestina, compresa Gerusalemme, è considerata terra islamica e,
in quanto tale, deve essere governata da autorità musulmane.
È questa
visione che nel 1948 spinse i Paesi arabi a rifiutare la spartizione
della Palestina: erano convinti di poter sconfiggere Israele militarmente e controllare
l’intero territorio. Tale linea è coerente anche con la strategia della Lega
Araba, che mantiene ancora oggi un dipartimento dedicato al boicottaggio
del sionismo.
Riconoscimenti formali e realtà politiche
Nel 1993, con gli Accordi di Oslo, l’OLP mediante uno scambio di lettere di mutuo riconoscimento tra il governo israeliano e l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) in cui indirettamente OLP in rappresentanza dei palestinesi— riconobbe formalmente lo Stato di Israele. Tuttavia, nonostante l'apparente riconoscimento, il primo atto fondativo del 28/05/1964 si dichiarava:
e con la revisione dell’Atto Fondativo dello Stato di Palestina del 25 marzo 2023 conferma un orientamento identitario chiaro attenuando la precedente carta fondativa comunque riaffermando indirettamente gli stessi obiettivi:
Questi principi, profondamente radicati, si scontrano con l’idea di coesistenza statale promossa in Occidente.
“Lupi” e “Pappagalli”: due coerenze diverse
I “lupi”
— i leader palestinesi e parte del mondo arabo — sono coerenti con i loro
obiettivi religiosi e politici: lo slogan “Dal fiume al mare” è perfettamente
allineato alla dottrina islamica classica e alle strategie storiche arabe.
I “pappagalli”
— le leadership occidentali — continuano invece a ripetere una formula
diplomatica ormai disancorata dalla realtà, ignorando il fondamento
religioso e ideologico che rende impraticabile la soluzione “due popoli, due
Stati” così come concepita dagli europei.
La retorica politica semplifica questioni complesse. Dietro slogan apparentemente innocui si celano visioni del mondo incompatibili: da un lato, una prospettiva teologico-giuridica radicata nell’Islam; dall’altro, un approccio occidentale laico e diplomatico. Finché l’Occidente continuerà a comportarsi da “pappagallo” e non affronterà il nodo ideologico alla base del rifiuto arabo-palestinese, la soluzione dei “due popoli e due Stati” resterà un’illusione.

Woke e Islam: l’alleanza inattesa che divide l’Occidente
Una convergenza inaspettata si sta delineando tra la sinistra progressista, spesso definita “woke”, e il mondo islamico. Un’alleanza che, secondo alcuni osservatori, nasce da un duplice fraintendimento: la presunzione ideologica dei leader della sinistra globale e l’abile strategia dei leader religiosi islamici.
Alla base, spiegano gli analisti, c’è la convinzione tipica della sinistra che le religioni siano un fenomeno destinato a dissolversi con l’evoluzione del pensiero umano. Seguendo questa logica, il credo religioso – considerato da Marx “l’oppio dei popoli” – sarebbe destinato a implodere o a trasformarsi in una sorta di versione spirituale del socialismo.
Un esempio evidente di questa tendenza si riscontra nella Chiesa cattolica. Per sopravvivere, l’istituzione sembra inseguire la modernità, accettando aperture sul fronte dell’omosessualità, dell’inclusione sociale e delle battaglie a favore dei migranti. Papa Francesco è diventato il simbolo di questa transizione: un pontefice che sostituisce la difesa dell’ortodossia con un messaggio di empatia e inclusione universale. Ma per molti critici, questa strategia rischia di svuotare il cristianesimo della sua dimensione trascendente, riducendolo a un messaggio etico privo di radici teologiche profonde.
L’errore, sostiene chi denuncia questa convergenza, è stato applicare lo stesso schema di lettura anche all’Islam. Ma, a differenza del cattolicesimo, l’Islam mantiene un’identità forte, compatta, radicata nella fede e nella legge religiosa. Trattare l’Islam come una semplice religione influenzabile e assimilabile, spiegano gli esperti, significa ignorare la forza spirituale e comunitaria che caratterizza le società mediorientali.
L’Occidente, abituato a un modello culturale dominato dal consumismo, dall’individualismo e da un senso di spiritualità attenuato, fatica a comprendere culture per cui il trascendente è ancora centrale. L’esempio dei kamikaze giapponesi durante la Seconda guerra mondiale, disposti a sacrificarsi per l’imperatore, dimostra quanto l’Oriente segua logiche di identità e onore difficili da tradurre in categorie occidentali.
Quando un terrorista islamico compie un attentato suicida, in Europa si tende a spiegare l’evento come il gesto isolato di un folle. Ma per chi conosce la cultura islamica, questi atti sono coerenti con una visione religiosa che attribuisce un valore eroico al martirio.
La sinistra “accogliente”, secondo questa lettura, commette dunque un duplice errore: presume che l’identità religiosa possa essere repressa o rieducata e ignora la profonda spiritualità che anima molte società del Medio Oriente.
Di questa debolezza, sostengono i critici, approfittano i leader islamici, consapevoli delle contraddizioni delle società liberali. Lo usano come un “cavallo di Troia” per rafforzare la loro presenza in Occidente, dichiarando apertamente che sfrutteranno le stesse leggi democratiche per espandere la loro influenza.
E qui entra in gioco un altro elemento: l’odio verso Israele e gli ebrei. Per alcuni osservatori, la sinistra trova un punto di convergenza con il mondo islamico proprio sull’identità. In un’Europa che ha smarrito le proprie radici culturali e spirituali, gli unici a mantenere una forte identità collettiva sono gli ebrei. Da qui, spiegano, nasce la popolarità di slogan come “dal fiume al mare”, che unisce frange della sinistra radicale e dell’estrema destra nel desiderio di cancellare l’unica comunità identitaria che resiste, così da rendere l’Occidente più facilmente plasmabile.
La strana alleanza tra sinistra e islam politico: un paradosso del nostro tempo
La domanda è inevitabile: come è possibile che la sinistra, da sempre paladina delle battaglie civili per l’uguaglianza, i diritti delle donne e delle comunità LGBT+, oggi trovi un terreno di convergenza con l’islam politico e integralista, che sul piano culturale rappresenta l’esatto contrario di quei valori?
Il paradosso si manifesta con forza nel dibattito sulla crisi di Gaza. Da un lato, i movimenti progressisti sventolano le bandiere del pacifismo, della difesa delle minoranze e dell’emancipazione individuale. Dall’altro, si ritrovano accanto a realtà islamiste che negano quei principi, relegando la donna a un ruolo subordinato, criminalizzando l’omosessualità e imponendo la religione come unico fondamento sociale.
Le possibili spiegazioni sono diverse: ignoranza culturale, calcolo politico, ricerca di alleanze alternative al neoliberismo. Ma c’è anche un terreno ideologico comune: il globalismo.
La sinistra contemporanea tende a dissolvere concetti come nazione e patria in favore di una visione transnazionale e collettiva. Le differenze culturali vengono percepite come ostacoli, mentre il “politicamente corretto” diventa uno strumento per uniformare linguaggi e comportamenti: non più “mamma e papà”, ma “genitori”; non “immigrati”, ma “richiedenti asilo”.
In questa prospettiva, i diritti dei residenti vengono spesso compressi per non urtare la sensibilità delle minoranze. È un ribaltamento che, secondo i critici, finisce per minare la stessa identità culturale occidentale.
Sorprendentemente, questa logica trova eco nell’islam politico, che si presenta come un progetto universale: la pace si raggiunge solo quando tutte le società saranno islamizzate e sottomesse al Corano.
Anche qui la censura è centrale: non si può criticare Allah o il testo sacro. Basti ricordare l’attacco terroristico del 2015 alla redazione di Charlie Hebdo, colpevole di aver pubblicato vignette satiriche su Maometto. Oppure le violente reazioni al discorso di Benedetto XVI a Regensburg (2006), quando il Papa citò un testo medievale critico verso la violenza religiosa: quelle parole furono sufficienti a scatenare proteste in tutto il mondo islamico.
Sono episodi che mostrano come il dissenso verso l’islam politico non sia tollerato, proprio come accade nei sistemi che puntano al pensiero unico.
Entrambi i modelli – globalismo di sinistra e islamismo – puntano dunque a un’omologazione culturale. E non sorprende che molti leader islamici vedano nei movimenti progressisti un cavallo di Troia per penetrare legittimamente nel tessuto occidentale, fino a trasformarlo dall’interno.
A questo scenario si aggiunge la Chiesa cattolica, che in nome dell’accoglienza e del dialogo interreligioso ha spesso aperto spazi e strutture ai migranti musulmani, finendo di fatto per affiancarsi a questo processo di globalizzazione culturale.
Resta però una contraddizione evidente: come possono i movimenti femministi e LGBT+ marciare accanto ad associazioni islamiste che, nei territori in cui hanno potere, negano la parità di genere e perseguitano gli omosessuali?
La risposta non è univoca. È un paradosso figlio della geopolitica, del calcolo politico e, in parte, di una certa cecità ideologica. Una convivenza fragile, che oggi si regge sull’illusione di una battaglia comune contro l’Occidente neoliberale, ma che domani potrebbe rivelarsi una resa culturale irreversibile.
Il neoeletto Papa Leone XIV sceglie di inaugurare il suo pontificato con una visita pastorale a Nicea, come se bastasse tornare sul luogo de...