lunedì 8 dicembre 2025

Lo smarrimento dell'occidente


Guardiamoci attorno con onestà: oggi assistiamo a un ribaltamento sorprendente di posizioni, alleanze e visioni del mondo. Da una parte religioni e ideologie nate con una vocazione universale—come cristianesimo e islam—continuano a muoversi nello scenario globale. Ma mentre il cristianesimo sembra avere perso la sua spinta espansiva, ripiegandosi tra nostalgie di ortodossia e tentativi di modernizzazione, l’islam riesce a crescere e a radicarsi anche nelle società occidentali. E lo fa spesso proprio sfruttando quei valori che l’Occidente ha costruito: accoglienza, integrazione, solidarietà, uguaglianza.

Ed è qui che nasce la domanda che dovrebbe farci riflettere: com’è possibile che movimenti, gruppi e persone che difendono diritti individuali, libertà personali, uguaglianza di genere e riconoscimento delle diversità finiscano talvolta per sostenere istanze provenienti da contesti religiosi che non condividono affatto questi principi? Com’è possibile che proprio chi difende la libertà, la pace e i diritti delle minoranze si trovi, senza quasi accorgersene, ad affiancare posizioni che, nella loro forma più rigida, mirano a limitare quelle stesse libertà?

La risposta, forse, non riguarda né l’islam né il cristianesimo, ma noi.
L’Occidente, concentrato sul benessere, sull’intrattenimento, sulla gratificazione immediata, ha smarrito il suo primo nucleo educativo: la famiglia. Per generazioni, la famiglia è stata il luogo in cui si costruivano identità, senso di appartenenza, trasmissione dei valori. Oggi quel ruolo si è assottigliato, rimpiazzato da tempo libero, consumi, fine settimana, vacanze, svaghi. La nostra cultura si è trasformata in un modello edonistico, che rincorre piacere e comodità più che responsabilità e continuità.

E nell’edonismo, la prospettiva del futuro scompare. I figli—che richiedono tempo, energia, sacrificio—sembrano un ostacolo. Molti li evitano per ragioni economiche, o semplicemente perché non vogliono rinunciare a qualcosa. Ma così rischiamo di impoverire le nostre società proprio dove nessuna economia potrà mai compensare: nel ricambio generazionale, nella cura, nella continuità. I nonni lo dicevano chiaramente: ogni scarpa diventa scarpone. Chi vive solo per il presente, prima o poi si troverà davanti un futuro vuoto.

Pensiamo a cosa significhi diventare anziani in un mondo senza figli e senza nipoti. Possiamo davvero credere che sarà lo Stato a occuparsi di tutti noi? Che basterà il risparmio? È una speranza fragile. Una società senza futuro demografico è destinata a vivere la vecchiaia come un incubo, non come una stagione della vita.

E allora, quel versetto antico che appare all’inizio della Genesi—
“Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra…” e che ritorna dopo il diluvio rivolto a Noè e ai suoi figli, non è soltanto un richiamo religioso.

È un avvertimento universale, un monito che attraversa epoche e civiltà: se una società smette di generare vita, smette anche di generare futuro.

Ignorarlo significa avviarsi lentamente verso il declino.

sabato 6 dicembre 2025

Quando la violenza è lecita? Avanza il “diritto alla Violenza”?



A quanto pare la domanda del momento è questa: quando la violenza diventa lecita? Semplice: quando fa comodo a qualcuno. Benvenuti nell’era del “diritto alla violenza”, il nuovo sport nazionale mascherato da lotta per i diritti.

Negli ultimi mesi si è imposto un dogma grottesco: se ti proclami difensore di un diritto, allora tutto ti è permesso. E così assistiamo allo spettacolo surreale di gruppi che, in nome delle cause più disparate, rivendicano una specie di licenza per devastare, intimidire, zittire. Basta dire “lo faccio per una minoranza” e puff, ogni limite scompare: occupazioni abusive, conferenze impedite, libri censurati, e naturalmente il consueto corredo di bombe carta, incendi, blocchi stradali e vandalismi vari. Tutto rigorosamente “etico”, ci mancherebbe.

Ma la parte più comica — si fa per dire — arriva dalla politica. Gruppi estremisti che giustificano la violenza? Nessuna sorpresa. Ma vedere PD, M5S, AVS e CGIL arrampicarsi sugli specchi con condanne infarcite di “ma… però… se…” è uno spettacolo indecoroso. Altro che difesa della legalità: qui si sta distribuendo un lasciapassare morale a chiunque urli più forte, trasformando i violenti in vittime e le vittime in colpevoli. Complimenti: una lezione magistrale di coerenza.

E allora, seguendo la loro brillante logica, tutto diventa possibile. Non ti piace il pensiero gender nelle scuole? Via libera all’indignazione militante. Non approvi i sostenitori dei palestinesi? Trattali come vogliono trattare gli altri. C’è un blocco stradale di professionisti della protesta? Beh, la teoria del “diritto alla violenza” apre scenari che nemmeno loro sembrano aver considerato. E se i giovani di destra adottassero le stesse maniere forti dei loro coetanei di sinistra, dovremmo forse applaudire al “diritto al dissenso fisico”?

È questo il capolavoro che i leader della sinistra radical-chic stanno confezionando: una società dove il diritto non è più uguale per tutti, ma modulabile in base a chi ti sta simpatico. Una società in cui la forza non è più un problema, ma un argomento.

Benvenuti nel mondo nuovo: quello dei “diritti miei”, difesi non con le idee, ma con il tacco, il gomito e — perché no — con la solita spruzzata di arroganza moralista.

Un futuro radioso, davvero. Per chi ama il caos ben confezionato.

domenica 30 novembre 2025

Papa Leone XIV sceglie di inaugurare il suo pontificato a Nicea


Il neoeletto Papa Leone XIV sceglie di inaugurare il suo pontificato con una visita pastorale a Nicea, come se bastasse tornare sul luogo del “delitto originario” per rinsaldare un’eredità teologica vecchia di diciassette secoli. Nicea è infatti il simbolo della nascita del cattolicesimo imperiale, quello costruito non tanto sulla predicazione evangelica, quanto sulle esigenze politiche di un Impero in decomposizione.

Nel IV secolo, la Chiesa è già diventata un organismo profondamente greco-romano, guidato da vescovi che, in grandissima parte, provengono da un retroterra pagano. Sono convertiti di prima o seconda generazione, cresciuti più nei culti misterici che nella Torah. E lo si vede: a Nicea l’atmosfera è tutto fuorché giudaica. Non è un caso che la rappresentanza giudeo-cristiana sia praticamente inesistente. Chi mai avrebbe potuto sentirsi al sicuro in un clima in cui persino l’imperatore Costantino, nella sua lettera sulla Pasqua, si lancia in invettive violentissime contro i Giudei, definendo le loro usanze “detestabili” e usando un linguaggio apertamente ostile? È difficile non parlare di antisemitismo primordiale, soprattutto se si guarda all’esito: il concilio decide di separare la Pasqua cristiana dal calendario ebraico proprio per prendere le distanze dal popolo che aveva dato i natali a Gesù.

La decisione dottrinale principale di Nicea – che il Figlio è “della stessa sostanza del Padre” – non nasce in una torre d’avorio teologica, ma nel pieno di un attacco politico e ideologico contro l’ultimo residuo di ebraicità all’interno del cristianesimo. Ario, con il suo richiamo al pensiero ebraico e biblico, è il bersaglio perfetto: sostiene che il Figlio sia stato creato da Dio, in linea con la tradizione rabbinica sulla dignità dell’uomo fatto “a immagine e somiglianza” del Creatore (Gen 1:26; Gen 5:1–2; Sal 8; Sal 82; ecc.). Tutta una visione, quella biblica, che presenta l’uomo come riflesso della divinità, non come Dio stesso.

Ma ammettere che Gesù fosse un essere creato – per quanto unico – avrebbe distrutto il progetto politico che stava nascendo: costruire un’istituzione nuova che potesse dichiararsi la vera erede delle promesse fatte da Dio ad Abramo. Per questo la posta in gioco della disputa con Ario era enorme. Rendere Gesù inequivocabilmente Dio significava che la Chiesa, tramite il primato di Pietro sancito da Matteo 16,18–19 e Giovanni 21,15–17, poteva autoproclamarsi nuovo “popolo eletto”, surclassando Israele e relegando gli ebrei nella categoria dei decaduti, dei puniti, dei “rigettati dal Messia”.

Da questo meccanismo teologico-narrativo nasce il fil rouge che accompagna secoli di storia cristiana: prima l’antisemitismo teologico, poi quello sociale e politico e infine il suo derivato moderno, l’antisionismo, costruito sulla pretesa che “gli ebrei hanno perso il diritto alla terra promessa”. Una logica innescata proprio a Nicea, dove l’ebraismo viene espulso dal cristianesimo non solo liturgicamente ma teologicamente.

Bisognerà aspettare il XX secolo, dopo tragedie immani e dopo che la teologia dell’“Israele decaduto” aveva avvelenato per secoli l’immaginario cristiano, perché la Chiesa cattolica provi a fare marcia indietro. Con il Concilio Vaticano II e il documento Nostra Aetate (1965) si riconosce finalmente che l’elezione del popolo ebraico non è mai stata revocata. Giovanni Paolo II lo ribadirà con una chiarezza che suona quasi come una confessione: “L’Alleanza fatta da Dio con Israele non è mai stata revocata”.

Eppure, nonostante queste dichiarazioni tardive e necessarie, il seme avvelenato piantato a Nicea non è mai stato completamente estirpato. Rimane nei secoli, sotto la superficie, come un’eredità ingombrante che nessuna visita pastorale potrà davvero cancellare.

sabato 29 novembre 2025

“Il marchese del Grillo” e l'antisionismo

 

Una domanda me la sono posta, e non riesco a togliermela dalla testa: com’è possibile che, dopo Nostra Aetate (1965) del Concilio Vaticano II — documento sbandierato come svolta epocale nel rapporto con gli ebrei — oggi l’antisemitismo continui indisturbato, riciclandosi nell’antisionismo più tossico?
E com’è possibile che proprio coloro che durante il Covid hanno smontato una a una le bugie dei media occidentali, etichettati come “complottisti” per aver verificato i fatti, gli stessi… abbiano poi bevuto senza fiatare le menzogne sul presunto genocidio israeliano diffuse da Hamas tramite Al Jazeera? Nessuna verifica, nessuna analisi, niente. Come se non avessero mai imparato nulla.

Alla fine, la risposta l’ho trovata: sotto l’antisionismo di oggi — persino quello dei “ribelli” anti-mainstream — ci sono duemila anni di bugie teologiche cattoliche mai davvero smentite.

Nostra Aetate, per quanto presentato come rivoluzionario, non ha scalfito il vero problema. Sì, condanna l’idea del “deicidio collettivo”, e Giovanni Paolo II si è affrettato a chiamarlo “una distorsione”. Ma la radice avvelenata resta: l’idea che “alcuni ebrei” abbiano ucciso Dio. Una dottrina assurda, pericolosa, e soprattutto perfetta per generare aberrazioni morali: permette di accusare un intero popolo per l’azione di pochi. È lo stesso meccanismo mentale che porta a dire: “i siciliani sono mafiosi”.

Questa colpa collettiva, predicata dalla Chiesa per oltre 1500 anni, ha scolpito nelle menti europee la figura dell’ebreo come “deicida”. E la Chiesa, dopo il Concilio, cos’ha fatto per rimediare? Nulla. Nessuna catechesi di massa, nessun mea culpa davvero operativo, nessuna pulizia teologica delle proprie macerie. Perché?

Perché il problema è più profondo: nasce da un errore teologico dei Padri della Chiesa — l’invenzione del “deicidio”.
Un errore che ha prodotto persecuzioni, pogrom e stermini, ma che non può essere eliminato senza toccare la dottrina cristologica stessa: se Gesù è Dio, allora per molti cattolici continuerà a serpeggiare il pensiero che “un ebreo” abbia consegnato Dio ai Romani.

E poi arriva il secondo pilastro, quello che regge tutto il castello: la teologia della sostituzione.
Secondo questa dottrina, la Chiesa avrebbe “rimpiazzato” Israele come Popolo eletto. Le promesse bibliche? Non più per Israele, ma riscattate dalla Chiesa. Israele non riconosce Gesù? Allora perde l’elezione. Via la radice, avanti il ramo nuovo.

Questa teologia è il carburante dell’antisionismo moderno. Perché se la Chiesa è il “vero Israele”, allora gli ebrei non hanno alcun diritto a tornare in Eretz Israel. E non sorprende che Avvenire, il quotidiano ufficiale della CEI, diffonda posizioni filo-palestinesi, rilanci accuse infondate di genocidio e si guardi bene dal riconoscere legittimità allo Stato ebraico.
Guai a dire che Israele esiste perché Dio lo ha voluto: significherebbe ammettere che la Chiesa non ha sostituito nessuno.

E qui viene il punto: due millenni di catechesi antiebraica e poi antisionista hanno plasmato la cultura occidentale, e persino oggi, mentre molti gridano “non crediamo ai media!”, sono prontissimi a bersi qualunque propaganda palestinese. Non è pensiero critico: è condizionamento religioso travestito da opinione politica.

E poi c’è un dettaglio imbarazzante: la Chiesa sostiene che il Papa è il rappresentante di Dio sulla terra. Ma se Dio non revoca le sue promesse — e Paolo lo dice chiaramente — come può Dio aver rinnegato Israele?
Paolo, nella Lettera ai Romani, non lascia spazio ai dubbi. Nel capitolo 11 si domanda se, non avendo molti ebrei riconosciuto Gesù, Dio abbia abbandonato il suo popolo.
La risposta? Lapidaria:

«Dio non ha affatto respinto il suo popolo.»
E ancora:
«I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili.» (Rm 11,29)

Fine della discussione. Dio non revoca un’alleanza che ha fatto Lui.

Non a caso molte chiese evangeliche contestano apertamente la teologia della sostituzione: semplicemente non sta in piedi biblicamente.

A questo punto, tutta la vicenda ricorda la celebre scena del film di Alberto Sordi Il marchese del Grillo.
La Chiesa, per secoli, ha di fatto detto agli ebrei ciò che dice Sordi al povero carbonaio:

«Io so’ io… e voi nun siete niente.»

Ecco il problema: la teologia cattolica è rimasta intrappolata in questa mentalità. La Chiesa è Israele; gli ebrei, per definizione, no.
E quando gli ebrei osano tornare nella loro terra, costruire uno stato, difendersi, prosperare… la narrazione salta. La struttura teologica scricchiola.
E l’Occidente — impregnato di secoli di catechesi antiebraica — reagisce con nuovo antisemitismo travestito da “solidarietà” verso i palestinesi.

Il risultato?
Persone che non credono più alle bugie dei media… che però credono ancora, senza saperlo, alle bugie della teologia cattolica di ieri.

mercoledì 26 novembre 2025

Lettera aperta agli antisionisti di destra– Parte VI

 


Dunque che cosa è Il sionismo?

Non nasce all’improvviso: è il risultato di una lunga storia identitaria e, allo stesso tempo, di una svolta politica avvenuta nell’Ottocento. Possiamo immaginarlo come un fiume che scorre da millenni, ma che nell’età moderna prende una nuova forma, più organizzata e consapevole.

Le radici antiche: un popolo già connesso alla sua terra

Per capire il sionismo, bisogna partire da un fatto semplice:
il popolo ebraico ha sempre avuto un legame fortissimo con la Terra d’Israele, non solo politico, ma spirituale, culturale e identitario. Nella Bibbia, nelle preghiere, nelle festività, nelle liturgie, ricorre continuamente l’idea di: una terra promessa, un luogo d’origine, un ritorno possibile (“l’anno prossimo a Gerusalemme”). Anche dopo la diaspora, gli ebrei non hanno mai smesso di considerare quella terra come il loro centro simbolico. Questa continuità è ciò che rende diverso il percorso ebraico rispetto a molti nazionalismi europei dell’Ottocento: qui non si deve creare un popolo, perché il popolo esiste già.

L’Ottocento: modernità, antisemitismo e Risorgimenti nazionali

Arriviamo ora al vero punto di svolta. L’Ottocento è il secolo dei nazionalismi: italiani, greci, ungheresi, tedeschi, polacchi. Tutti i popoli d’Europa iniziano a chiedersi: "Chi siamo? Dove vogliamo essere? A quale terra apparteniamo?" Gli ebrei, però, vivono una situazione diversa. Da un lato iniziano finalmente ad emanciparsi: ottengono diritti civili, accedono all’università, partecipano alla vita culturale e politica delle nuove nazioni, dall’altro lato, l’antisemitismo si rafforza, soprattutto nell’Europa centro-orientale e nella Russia zarista, dove esplodono pogrom, persecuzioni e discriminazioni. Molti ebrei si accorgono che la promessa dell’integrazione non regge. L’idea comincia a circolare: per essere sicuri, liberi e pienamente se stessi, dobbiamo avere una nostra terra.

I pionieri del pensiero sionista

Prima di Herzl ci sono diversi pensatori che iniziano a parlare di un ritorno in Terra d’Israele:

  • Rabbi Yehuda Alkalai e Rabbi Zvi Hirsch Kalischer (primi teorici religiosi)
  • Moses Hess, socialista e amico di Marx, autore nel 1862 di Roma e Gerusalemme, che propone un nazionalismo ebraico moderno
  • i primi gruppi di immigrati (i proto-sionisti) che raggiungono la Palestina ottomana nella seconda metà dell’Ottocento

Questi movimenti sono ancora spontanei, frammentati, non organizzati. Il passo decisivo arriva con una persona precisa. Theodor Herzl: il fondatore del sionismo moderno.  Il “padre” politico del sionismo è Theodor Herzl, un giornalista ebreo austro-ungarico assimilato, laico, cresciuto più nella cultura europea che in quella tradizionale ebraica. Tutto cambia quando assiste al famoso Affare Dreyfus in Francia (1894): un ufficiale ebreo viene ingiustamente accusato di tradimento, e nelle piazze esplodono manifestazioni antisemite violentissime. Herzl capisce una cosa radicale: «L’assimilazione non ci proteggerà. Per vivere liberi dobbiamo avere una nostra patria.»

Nel 1896 scrive Der Judenstaat (Lo Stato degli Ebrei), un manifesto che afferma:

  • gli ebrei sono un popolo,
  • come ogni popolo hanno diritto a una patria,
  • l’unica patria possibile è la Terra d’Israele.

L’anno dopo, nel 1897, organizza a Basilea il Primo Congresso Sionista. È lì che nasce ufficialmente il movimento sionista moderno, con un programma chiaro: creare una casa nazionale per il popolo ebraico in Eretz Israel. Herzl annota nel suo diario una frase diventata celebre: «A Basilea ho fondato lo Stato ebraico. Forse non lo dirò pubblicamente oggi, ma tra cinque, dieci o cinquanta anni tutti lo capiranno.» 47 anni dopo, nel 1948, nasce lo Stato d’Israele.

Perché il sionismo è diverso dagli altri nazionalismi?

La differenza fondamentale è questa:

  • I movimenti nazionali europei (come il Risorgimento italiano)
    creano un’identità per poi creare uno Stato.
  • Il sionismo, al contrario,
    parte da un’identità già fortissima e cerca una patria per esprimerla pienamente.

Gli italiani dell’Ottocento dovevano “immaginare” un popolo comune; gli ebrei lo possedevano già. Dunque la seconda domanda è: perché negare agli ebrei una patria quando tutti i popoli europei hanno nello stesso periodo combattuto per i loro paesi? Perché gli ebrei sono odiati per il solo fatto di essere ebrei.

L’ostilità verso gli ebrei affonda le radici in una serie di falsità che, nel corso dei secoli, sono state ripetute e amplificate da varie entità per motivi di potere e controllo. La prima grande menzogna è quella del “deicidio”, diffusa per secoli anche in ambienti della Chiesa Cattolica quando questa, più che un’autorità spirituale, agiva come forza politica e di dominio su popolazioni spesso prive di istruzione. In quel contesto, la comunità ebraica – molto legata allo studio e dotata di una forte identità – veniva percepita come una possibile minaccia.

La seconda grande falsità è quella de “I Protocolli dei Savi di Sion”, un testo costruito a tavolino dalla polizia zarista per far credere all’esistenza di un complotto ebraico mondiale. Un vero e proprio falso storico, diffuso per manipolare l’opinione pubblica e orientarne l’odio. Oggi lo definiremmo una “fake news”, ma all’epoca fu presa sul serio, alimentando antisemitismo fino alla Germania nazista e, in seguito, anche nell’Italia fascista.

L’ignoranza delle masse e la propaganda martellante hanno fatto sì che queste menzogne si rafforzassero a vicenda, giustificando persecuzioni e discriminazioni. L’idea che gli ebrei, grazie alla loro cultura e alla loro identità ben radicata, potessero rappresentare un ostacolo ai progetti di chi cercava di controllare le popolazioni ha giocato un ruolo decisivo.

Oggi, però, abbiamo strumenti nuovi. Grazie ai social e alla possibilità di informarsi in modo più diretto, è diventato più difficile cadere in certe manipolazioni storiche.

Questo è importante anche perché la nostra civiltà occidentale, fondata su valori giudeo-cristiani, si trova a confrontarsi con nuove sfide: da un lato l’espansione dell’islamismo radicale, dall’altro alcune correnti ideologiche progressiste che, in nome dei diritti, facilitano flussi migratori senza sempre considerarne le conseguenze sociali e politiche. A questo si aggiunge una parte della destra antisionista che, non comprendendo il sionismo come un progetto di autodeterminazione e non di dominio, finisce per sposare narrazioni che vengono strumentalizzate dall’islamismo radicale stesso.

Così accade che una parte della destra finisca per appoggiare automaticamente la causa palestinese senza rendersi conto che, in questo modo, rischia di favorire proprio quelle forze che si oppongono ai valori che essa intende difendere. Anche qui agiscono nuove “fake news”, come quelle che parlano impropriamente di genocidio, usate per alimentare ostilità e confusione.

 

 

lunedì 24 novembre 2025

Lettera aperta agli antisionisti di destra– Parte V

 


Il Risorgimento e il Sionismo: due strade diverse verso la nascita di una nazione

Per capire davvero il senso del sionismo come movimento identitario, può essere utile ripartire dalla nostra storia nazionale, quella del Risorgimento. Le due vicende hanno molti punti di contatto, ma si sviluppano seguendo logiche quasi opposte. Ed è proprio questo contrasto che le rende interessanti.

L’Italia prima dell’Italia

Nel Settecento la storia era un affare riservato ai filosofi, alle élite e ai sovrani. Il popolo, inteso come comunità con tradizioni, lingua e usanze comuni, non aveva ancora un ruolo nella narrazione storica. Era più spettatore che protagonista.

Poi arriva l’Ottocento, e con lui un vento nuovo. Nasce un’idea diversa di popolo: non una massa indistinta, ma una comunità viva, con una voce, un carattere, una missione. È il Romanticismo a dare questa svolta. Non a caso, proprio in quegli anni filosofi come Herder parlano del Volksgeist, lo “spirito del popolo”, un concetto che diventerà carburante per molti movimenti di liberazione nazionali.

E l’Italia? A quel tempo era solo una penisola fatta di regni, ducati, imperi stranieri. Ognuno parlava il suo dialetto, seguiva le sue leggi, viveva la sua storia. La gente non si sentiva “italiana”: si sentiva piemontese, veneta, toscana, napoletana.

Eppure, proprio in quell’epoca nasce nelle menti degli intellettuali l’idea di un’Italia possibile. Prima nasce un sogno, poi un progetto, molto prima di vedere la realtà.

Lenti che cambiano: dalla cultura alla politica

L’identità italiana si costruisce a poco a poco.
Gli scrittori e i poeti le danno una lingua comune: Manzoni, Foscolo, Leopardi.
I pensatori politici, Mazzini su tutti, le danno una missione morale.
E infine i protagonisti della politica e della guerra, Cavour e Garibaldi, la trasformano in un obiettivo concreto.

Potremmo riassumere così: prima si immagina il popolo italiano, poi si costruisce l’Italia.

E un momento simbolico di questa nascita c’è: il 1831, quando Mazzini fonda a Marsiglia la Giovine Italia. Per la prima volta viene formulato un programma chiaro: un’Italia unita, libera dagli stranieri, repubblicana e basata sulla volontà del popolo. È il primo vero progetto politico moderno dell’unità.

Dal sogno alle armi: le guerre del Risorgimento

Tra il 1848 e il 1870 l’Italia vive una stagione in cui idealismo e guerra camminano fianco a fianco.

La Prima Guerra d’Indipendenza nasce sull’onda dei moti del ’48. Carlo Alberto guida il Regno di Sardegna contro l’Austria, sostenuto dalle rivolte popolari di Milano e Venezia. L’entusiasmo è grande, ma le sconfitte di Custoza e Novara chiudono il primo tentativo.

Si riparte nel 1859 con la Seconda Guerra d’Indipendenza. Questa volta Cavour punta sulla diplomazia: si allea con la Francia di Napoleone III. L’Austria viene sconfitta, la Lombardia entra nel Regno di Sardegna e, tramite plebisciti, anche Toscana, Emilia e Romagna scelgono l’unione. È il momento in cui la mappa comincia davvero a prendere forma.

Poi arrivano gli anni di Garibaldi. Nel 1860 parte con mille volontari dalla Liguria e, in pochi mesi, conquista Sicilia e Sud Italia, sospinto dalla speranza di popolazioni stanche del regime borbonico. Quell’impresa straordinaria apre la strada all’unificazione del Mezzogiorno sotto Vittorio Emanuele II.

Nel 1866 l’Italia entra nella guerra austro-prussiana. Anche qui i risultati militari non sono brillanti, ma la vittoria della Prussia permette all’Italia di ottenere il Veneto.

Infine, nel 1870, arriva Roma. Le truppe italiane entrano nello Stato Pontificio attraverso la breccia di Porta Pia. La città viene annessa al Regno d’Italia e l’unità territoriale può dirsi compiuta.

Ed ecco il parallelo con il Sionismo

Ora, se guardiamo al sionismo, la differenza è immediata: l’Italia ha costruito un popolo per arrivare allo Stato; il sionismo parte da un popolo già formato e cerca di ricondurlo alla sua terra.

Gli ebrei, infatti, avevano da millenni:

  • una tradizione religiosa coesa,
  • una lingua comune,
  • una memoria storica condivisa,
  • un’identità fortissima, sopravvissuta anche alla diaspora.

Quando Herzl e gli altri fondano il sionismo moderno, non devono “inventare” un popolo: devono dargli una patria. È un percorso inverso a quello italiano.

Due storie, un desiderio comune

Alla fine, Risorgimento e Sionismo raccontano la stessa aspirazione: il bisogno di un popolo di vivere secondo la propria identità.

Ma lo fanno percorrendo due sentieri diversi:

  • l’Italia immagina un’identità nazionale e poi la trasforma in realtà politica;
  • gli ebrei custodiscono un’identità millenaria e la trasformano in uno Stato moderno.

Due strade diverse, entrambe mosse da una forza che l’Ottocento riscopre con passione:
l’idea che un popolo, per essere davvero se stesso, debba avere una casa dove vivere la propria storia.

Una nota di colore: La tradizione storica più accreditata racconta che il primo colpo di cannone contro Porta Pia fu sparato da un soldato ebreo.

Il nome che ricorre nelle fonti è quello dell’artigliere Giacomo (o Giacomo “Jacob”) Segre, appartenente alla 5ª batteria del 9º Reggimento Artiglieria da Campagna del Regno d’Italia.
Segre, proveniente da una famiglia ebraica piemontese, è ricordato come il cannoniere che diede l’avvio al fuoco che aprì la celebre breccia di Porta Pia il 20 settembre 1870, permettendo alle truppe italiane di entrare a Roma. L’episodio è rimasto simbolico perché un soldato ebreo contribuì in modo diretto alla presa della città che, fino a quel momento, era il centro del potere temporale della Chiesa.


domenica 23 novembre 2025

Immigrazione, natalità ed economia

 


Il movimento europeo della “remigrazione e riconquista”, oggi sostenuto da parti della destra e da una parte dell’opinione pubblica, nasce da problemi reali, ma li interpreta in modo parziale e propone soluzioni poco realistiche. Per capire perché queste proposte non funzionano, bisogna analizzare con precisione le cause strutturali che hanno portato l’Europa — e l’Italia in particolare — alla situazione attuale.

Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Italia ha vissuto un periodo di crescita economica e demografica: tra il 1946 e il 1960 si ha il boom delle nascite e la ricostruzione industriale. Manifattura e agricoltura richiedevano moltissima manodopera e la disponibilità di lavoro sosteneva naturalmente la natalità.

A partire dagli anni ’70-’80 iniziò invece una transizione profonda: il tasso di fecondità calò rapidamente fino a scendere sotto il livello di sostituzione generazionale (2,1 figli per donna). Mentre nascevano sempre meno bambini, aumentava l’aspettativa di vita. Il risultato è stato un Paese sempre più anziano, con un numero crescente di pensionati sostenuti da una popolazione attiva sempre più ridotta.

Oggi siamo nel pieno di questa crisi: l’Italia ha uno dei tassi di natalità più bassi al mondo (circa 1,2–1,3 figli per donna) e un rapido calo della popolazione in età lavorativa. Nonostante ciò, agricoltura, logistica, edilizia e alcuni settori industriali continuano ad avere bisogno di manodopera. È qui che entra in gioco la scelta europea, fatta dagli anni ’90 in poi: compensare il calo dei nati con l’immigrazione.

Ed è proprio qui che emerge la differenza decisiva.
L’immigrazione del passato — come quella degli italiani in America, in Belgio o in Svizzera — avveniva tra popolazioni che, pur diverse, condividevano un quadro culturale e religioso simile (cristianesimo o ebraismo). L’integrazione non era immediata, ma era possibile: nel giro di due o tre generazioni si creavano comunità pienamente integrate.

L’immigrazione contemporanea è profondamente diversa. Ma quando gli immigrati provengono da una cultura tribale è impensabile che essi si integrano, ma si aggregano e vivono in quartieri chiusi. Quindi la prima domanda che ci dobbiamo porre è: chi favoriamo nell’immigrazione, che popoli? La questione si aggrava quando l’immigrazione è caratterizzata da musulmani. Infatti l’immigrazione è una forma di jhad perché serve al processo di islamizzazione e di espansione dell’islam. Considerate che i musulmani praticano la poligamia, a fronte di una moglie ufficiali ne anno altre “sposate” solo religiosamente e con ogni donna fanno una media di 5 figli.  Figli che sosteniamo noi con la spesa sociale. Una parte significativa dei flussi proviene da paesi a maggioranza islamica, dove la struttura familiare, il modello sociale e la visione del rapporto tra religione e vita pubblica sono molto diversi e sono in contrasto con quelli europei. Dobbiamo constatare che:

  • molte comunità immigrate tendono a vivere in quartieri propri, non a mescolarsi;
  • i tassi di natalità sono molto più alti rispetto alle società europee;
  • la religione continua a essere un fattore identitario centrale;
  • l’integrazione culturale procede lentamente e spesso si ferma alla prima o seconda generazione.

È evidente che l’immigrazione di popolazioni numerose, culturalmente molto distanti e con tassi di natalità più elevati genera uno squilibrio strutturale tra una società europea che non fa più figli e comunità che mantengono ritmi demografici molto più alti.

In altre parole, la crisi non deriva semplicemente dall’immigrazione, ma da una denatalità autoindotta che ha reso l’Europa demograficamente fragile. Abbiamo anteposto il tempo libero, il consumo e l’individualismo alla costruzione di famiglie numerose. Abbiamo preferito proteggere il presente invece di costruire il futuro. Le generazioni precedenti, pur con più difficoltà economiche, accettavano sacrifici che oggi riteniamo eccessivi.

Il risultato è davanti ai nostri occhi: una società che invecchia rapidamente, che ha bisogno di lavoratori e che per colmare il vuoto si affida a flussi migratori in larga parte provenienti da contesti islamici. Flussi che, per motivi culturali e religiosi, non sempre si integrano facilmente.

La conseguenza è un duplice squilibrio:

  • demografico, perché gli europei fanno pochi figli mentre le comunità immigrate crescono;
  • culturale, perché l’identità europea si indebolisce mentre crescono identità parallele.

Per chi crede — cristiani o ebrei — la questione non è solo sociale ma anche spirituale: la natalità è una benedizione, una mitzvà, una vocazione. Rinunciare ai figli per timore economico o per non sacrificare il “tempo libero” significa privare la nostra civiltà della sua continuità.
La responsabilità ricade sia sulle coppie che potrebbero costruire famiglie numerose, sia sui genitori che non incoraggiano i propri figli a farlo. Non possiamo ragionare solo sul presente: il futuro si fonda sulle nuove generazioni. E senza bambini, nessuna società sopravvive, indipendentemente da quanta immigrazione riceva.

 


Lo smarrimento dell'occidente

Guardiamoci attorno con onestà: oggi assistiamo a un ribaltamento sorprendente di posizioni, alleanze e visioni del mondo. Da una parte reli...