domenica 26 ottobre 2025

L’inganno del dialogo interreligioso

 



Le leadership occidentali, laiche o di matrice cristiana, appaiono oggi prive di una reale consapevolezza della cosiddetta “questione islamica”. Analizzano gli eventi globali con gli “occhiali” della propria cultura, fondata sui diritti umani e sull’universalismo etico, e partono dal presupposto che anche le altre civiltà debbano condividere e apprezzare i valori cardine delle democrazie occidentali. È un errore di prospettiva: un corto circuito culturale che impedisce di cogliere la diversa matrice valoriale e teologica delle grandi religioni monoteistiche.

Gli ebrei della diaspora, ad esempio, hanno storicamente interpretato la “non assimilazione” non come chiusura, ma come salvaguardia della propria identità: preghiere, festività, regole alimentari e comportamenti che ne mantengono viva la tradizione. Il loro dialogo con cristianesimo e islam è spesso più uno strumento di presenza sociale e politica che una reale ricerca di confronto teologico. In molti casi, non conoscono in profondità le sfumature del cristianesimo (nelle sue componenti cattolica, protestante ed evangelica) o dell’islam, quasi che parlarne apertamente sia imbarazzante.

Dall’altro lato, i cattolici portano con sé l’eredità teologica della teoria della sostituzione, secondo la quale la Chiesa avrebbe preso il posto di Israele nel piano divino: una visione che, di fatto, ha generato nel tempo un atteggiamento di imbarazzo – se non di ostilità – nei confronti dello Stato d’Israele. I protestanti, pur non essendo anti-israeliani, tendono perlopiù a collocarsi su posizioni politiche progressiste, mostrando una certa reticenza a esprimere un sostegno esplicito. Solo gli evangelici, per motivi teologici, riconoscono apertamente il ruolo spirituale di Israele e il suo diritto alla terra, convinti che nel disegno divino esso giochi un ruolo essenziale.

E l’islam? Qui si incontra il silenzio.
Nonostante le numerose occasioni mediatiche, raramente gli esponenti musulmani denunciano pubblicamente gli atti di terrorismo o di violenza compiuti in nome della loro fede. In televisione, ripetono che “l’islam è una religione di pace”, prendendo le distanze dai violenti senza mai affrontare apertamente la questione teologica o politica che giustifica certi comportamenti. Come in altri movimenti ideologici del passato, si tende a separare l’atto violento dal credo, classificandolo come “caso isolato”.
Un dialogo fondato su tali premesse non è un dialogo, ma una fonte di confusione.

Il dialogo che non serve

Il dialogo interreligioso tra le grandi fedi monoteistiche, a ben vedere, non esiste — non per volontà ostile, ma perché le premesse stesse lo rendono inutile o impossibile.

L’ebraismo non ha bisogno di dialogare per affermare la propria verità: non cerca conversioni, riconosce a ogni uomo il diritto di praticare la propria fede, purché rispetti le leggi universali che D-o ha rivelato all’umanità — il rispetto della famiglia, della vita, degli animali e della natura. Il suo compito non è convertire, ma testimoniare l’unicità divina nel mondo.

Il cristianesimo, al contrario, ha una missione dichiaratamente universale: proclamare la salvezza in Gesù Cristo e invitare l’uomo alla conversione. È quindi per sua natura una religione del “dialogo”, inteso come annuncio. Pur avendo abbandonato da secoli l’uso della forza, conserva l’idea di un messaggio di pace da portare al mondo.

L’islam, invece, concepisce la propria missione come universale e normativa: ha l’obbligo di islamizzare i popoli, cioè di sottometterli all’autorità divina (Allah). Tale obiettivo è perseguito attraverso tre canali: la jihād (lo “sforzo” anche armato), il finanziamento della propaganda e l’espansione demografica. La strategia è chiara: la demografia è il tallone d’Achille di un’Europa secolarizzata e priva di slancio spirituale.

Ma cosa intendiamo per dialogo?

Se per “dialogo” intendiamo la capacità di ascoltare l’altro, ipotizzando che possa avere ragione, allora esso è possibile solo nel campo laico, dove le verità non sono assolute.
Nell’ambito religioso, invece, dove la verità è rivelata e non negoziabile, il dialogo in senso stretto è impossibile.
Se però intendiamo il dialogo come conoscenza reciproca — un confronto culturale per comprendere la visione del mondo dell’altro e arricchire la propria — allora esso può essere fecondo, soprattutto tra ebraismo e cristianesimo, che condividono testi sacri (Torah e Bibbia) e una comune matrice etica: quella giudeo-cristiana che ha plasmato la civiltà occidentale.

Diverso è il caso dell’islam, i cui testi fondamentali, Corano e Sunna, esprimono valori non solo differenti, ma spesso in contrasto con quelli occidentali.
Un esempio emblematico riguarda l’etica della verità:

  • Nella Torah (Esodo 20:16): “Non dire falsa testimonianza contro il tuo prossimo.”
  • In Paolo (Efesini 4:25): “Bandita la menzogna, ciascuno dica la verità al suo prossimo.”
  • Nel hadith del Profeta Muhammad: “La menzogna non è lecita se non in tre casi: in guerra, per riconciliare le persone e tra un uomo e sua moglie.”

Per ebrei e cristiani la menzogna è sempre un peccato; per l’islam può essere ammessa in certe circostanze. Da qui nasce l’ambiguità che vediamo nei media, quando imam o portavoce islamici negano la connessione tra violenza e fede, o minimizzano la condizione femminile nel mondo musulmano. È una forma di dissimulazione ammessa dalle loro stesse fonti religiose.

Conclusione: la necessità della lucidità

Insistere sul “dialogo interreligioso” come strumento politico è un grave errore.
Così facendo, inganniamo noi stessi, illudiamo le future generazioni e, soprattutto, diamo ai nostri leader politici l’idea che un dialogo paritario tra religioni sia possibile.
Ma non lo è, almeno non nei termini in cui viene proposto oggi.

Serve piuttosto comprendere le strategie culturali e teologiche che muovono il mondo islamico, per affrontarle con lucidità e rispetto, ma senza ingenuità. Solo riconoscendo le differenze si può costruire un vero equilibrio tra le civiltà.

 

domenica 12 ottobre 2025

Israele, Palestina e diritto internazionale: tra legittimità, religione e storia


Il diritto internazionale trova le sue radici nei trattati e nelle convenzioni stipulate tra Stati sovrani – bilaterali o multilaterali – o tra organizzazioni internazionali.

A questi si aggiungono le consuetudini internazionali, che, pur non essendo scritte, sono considerate vincolanti come i trattati, e i principi generali del diritto, derivati dai sistemi giuridici nazionali.
Completano il quadro le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia, del Tribunale per il Diritto del Mare e le risoluzioni delle Nazioni Unite, che, se considerate parte integrante del diritto internazionale, assumono un valore normativo e politico rilevante.

Le origini legali e politiche dello Stato di Israele

In questa prospettiva, la Risoluzione 181 (II) dell’Assemblea Generale dell’ONU, approvata il 29 novembre 1947, rappresenta la premessa giuridica per la fondazione dello Stato di Israele.
La risoluzione prevedeva la spartizione della Palestina mandataria in due Stati indipendenti — uno ebraico e uno arabo — con Gerusalemme posta sotto amministrazione internazionale.

Il 14 maggio 1948, David Ben Gurion, capo dell’Agenzia Ebraica, proclamò ufficialmente la nascita dello Stato di Israele a Tel Aviv, poche ore prima della fine del mandato britannico.
Il giorno seguente, il 15 maggio 1948, gli eserciti di Egitto, Siria, Giordania, Libano e Iraq attaccarono il nuovo Stato, dando inizio alla prima guerra arabo-israeliana. Israele respinse l’aggressione e conquistò territori oltre i confini previsti dal piano ONU.

Il rifiuto arabo del piano di spartizione ebbe conseguenze profonde:
gli stessi Stati arabi che dichiararono guerra a Israele rifiutarono di fondare uno Stato palestinese, lasciando così un vuoto politico. I territori occupati da Israele dopo la guerra del 1948 non appartenevano a un’entità sovrana palestinese, ma erano ex territori del mandato britannico, non rivendicati formalmente dagli Stati arabi. Israele, quindi, si trovò ad amministrare territori privi di sovranità riconosciuta.

Una presenza ebraica ininterrotta in Terra d’Israele

Spesso si dimentica che gli ebrei non “ritornarono” semplicemente in Palestina nel Novecento, ma non se ne erano mai del tutto andati.
Dopo la distruzione del Secondo Tempio (70 d.C.) e la rivolta di Bar Kokhba (132–135 d.C.), una parte della popolazione ebraica continuò a vivere nella regione, soprattutto in Galilea, Gerusalemme, Hebron e Safed.

Nei secoli successivi — sotto domini bizantino, arabo e ottomano — le comunità ebraiche mantennero una presenza stabile e riconosciuta, con centri religiosi, scuole rabbiniche e attività economiche.
Durante il periodo ottomano (1517–1917), gli ebrei erano presenti nelle cosiddette “quattro città sante” dell’ebraismo: Gerusalemme, Hebron, Safed e Tiberiade.

Quando nel 1917 la Palestina passò sotto Mandato britannico, vivevano nel territorio circa 60–80.000 ebrei, molti dei quali discendenti di famiglie autoctone presenti da secoli.
Le successive ondate migratorie (aliyot) provenienti dall’Europa orientale, dallo Yemen e dal Nord Africa si innestarono dunque su una continuità storica preesistente.

Per secoli, ebrei e arabi vissero fianco a fianco, spesso in rapporti di collaborazione commerciale e culturale.
La contrapposizione etnica e politica emerse solo in epoca moderna, con la nascita del sionismo politico e del nazionalismo arabo, due ideologie parallele ma contrapposte che trasformarono un’antica convivenza in un conflitto identitario.

Dalla nascita di Israele alla questione palestinese

Solo quarant’anni dopo la fondazione di Israele, il 15 novembre 1988, durante una riunione ad Algeri, il Consiglio Nazionale Palestinese proclamò simbolicamente la nascita dello Stato di Palestina.
Fu un atto politico e simbolico, non sostenuto da un controllo territoriale reale: un’espressione di autodeterminazione del popolo palestinese, che in larga parte era composto da profughi provenienti da Egitto e Giordania.
La proclamazione richiamava i confini del mandato britannico e il piano ONU del 1947, che prevedeva due Stati, ma senza che questi fossero mai realmente nati.

Tra il 1948 e il 1988, la regione fu scossa da quattro guerre principali — la Crisi di Suez (1956), la Guerra dei Sei Giorni (1967), la Guerra del Kippur (1973) e l’invasione del Libano (1982) — tutte originate da iniziative militari arabe.

Nel frattempo, la Carta delle Nazioni Unite (1945) sanciva, all’articolo 2, paragrafo 4, che gli Stati devono astenersi dall’uso della forza contro l’integrità territoriale di altri Stati.
Ma questo principio era inapplicabile alla Palestina: uno Stato palestinese non esisteva, e la sua mancata esistenza era il risultato diretto del rifiuto arabo del 1947.

Tra il 1948 e il 1974 si registrarono 19 attentati terroristici attribuiti a gruppi palestinesi.
L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), nata nel 1964, ottenne nel 1974 il riconoscimento da parte dell’ONU come “unico legittimo rappresentante del popolo palestinese”.

La questione dello status dei territori e il dibattito sulla legittimità

Alla luce di queste premesse, la narrazione secondo cui “Israele occupa la Palestina” risulta giuridicamente imprecisa.
Israele amministra territori contesi, non appartenenti a uno Stato sovrano.
Secondo la Convenzione di Montevideo del 1933, per essere considerato Stato, un’entità deve possedere quattro elementi: popolazione stabile, territorio definito, governo effettivo e capacità di relazioni internazionali.
La Palestina, in assenza di un effettivo controllo territoriale e di una sovranità riconosciuta, non soddisfa pienamente questi criteri.

La posizione del mondo arabo e la questione di Gerusalemme

Dopo la proclamazione di Israele nel 1948, la Lega Araba ne rifiutò il riconoscimento, considerandolo una “creazione illegittima sul territorio arabo”.
Solo nel 1979, l’Egitto, membro fondatore, firmò con Israele il Trattato di pace di Camp David, primo passo verso una normalizzazione diplomatica.
Negli anni successivi, anche altri Paesi arabi — Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan — hanno stabilito relazioni ufficiali con Israele attraverso gli Accordi di Abramo (2020).
Tuttavia, la Lega Araba nel suo insieme continua a non riconoscere formalmente Israele, condizionando ogni riconoscimento alla creazione di uno Stato palestinese sovrano.

Alla base di questo rifiuto resta una convinzione radicata: la nascita di Israele sarebbe stata imposta dalle potenze occidentali dopo l’Olocausto, senza il consenso delle popolazioni arabe locali, che all’epoca costituivano la maggioranza.

Il nodo religioso: Gerusalemme contesa

Il conflitto israelo-palestinese non è solo politico, ma profondamente religioso e simbolico.
Per i musulmani, Gerusalemme Est è la capitale ideale del futuro Stato palestinese e la terza città santa dell’Islam.
Per gli ebrei, invece, Gerusalemme (Yerushalayim) è la città sacra per eccellenza, menzionata oltre 600 volte nella Bibbia ebraica:
la città di Davide, sede del Primo Tempio di Salomone, e luogo del sacrificio di Isacco.
Per la tradizione ebraica, Gerusalemme è il punto d’incontro tra Dio e il popolo d’Israele, la dimora della presenza divina (Shekhinah) e il simbolo eterno del legame con la propria terra.

Conclusione: il conflitto che non si estingue

La nascita di un “popolo palestinese” come entità politica moderna ha avuto anche la funzione di rafforzare la rivendicazione araba sull’intero territorio della Palestina storica, secondo lo slogan “dal fiume al mare”.
Da qui, la formula diplomatica “due popoli, due Stati” appare più come un ideale occidentale che come una soluzione realistica, poiché ignora le profonde radici religiose e culturali del conflitto.

Le tregue e gli accordi temporanei — come la liberazione di ostaggi o i cessate il fuoco — non rappresentano una pace duratura, ma solo pause tattiche in un conflitto che, per una parte del mondo arabo e islamico, può dirsi concluso solo con il pieno controllo islamico della Palestina.


lunedì 6 ottobre 2025

La banalità degli slogan: tra “due popoli, due Stati” e “dal fiume al mare”

 


Quante volte abbiamo sentito i leader occidentali ripetere, quasi fosse una formula magica: “due popoli, due Stati”? È un mantra che torna puntuale a ogni crisi mediorientale, invocato come soluzione inevitabile ma mai realizzata. Dall’altra parte, alle manifestazioni pro-palestinesi, riecheggia immancabilmente un altro slogan: “Dal fiume al mare”.

Due frasi, due visioni contrapposte, ma ripetute con la stessa leggerezza di chi non ne comprende fino in fondo il significato. Da qui la metafora: da un lato i “pappagalli”, le leadership occidentali che ripetono uno slogan ormai svuotato; dall’altro i “lupi”, i leader palestinesi, coerenti con i propri principi ideologici e religiosi.

I “pappagalli” occidentali: slogan senza sostanza

Le classi politiche europee e statunitensi continuano a sostenere la soluzione “due popoli, due Stati” come se fosse un dato di fatto politico. In realtà, questo progetto non è mai stato accettato né perseguito in modo coerente dai principali attori arabi e palestinesi.

Sin dalla Risoluzione ONU del 1947 sulla spartizione della Palestina, la maggioranza dei Paesi arabi ha rifiutato la creazione di uno Stato palestinese accanto a uno ebraico. Il motivo, spesso frainteso in Occidente, non è semplicemente politico o anticoloniale, ma teologico e giuridico: secondo il pensiero islamico classico, una terra definita “islamica” non può essere governata da non musulmani.

La base giuridico-religiosa: dār al-Islām

La dottrina islamica si fonda su versetti coranici e tradizioni profetiche che definiscono come un territorio debba entrare a far parte della comunità islamica (dār al-Islām).

  • Sura 8, versetto 39: «Combattete contro di loro finché non cessi la persecuzione e la religione non sia tutta per Allah».
  • Sura 9, versetto 29: introduce la jizya, la tassa che consente a territori non musulmani di entrare sotto dominio islamico senza conversione obbligatoria.
  • Sura 9, versetto 5 (il “versetto della spada”): comanda la lotta contro i politeisti finché non accettino l’Islam o un trattato di sottomissione.

Negli Hadith e nella Sunna si trovano esempi concreti: Medina, Mecca e Khaybar furono integrate nella comunità islamica dopo resa o conquista; le lettere inviate dal Profeta ai sovrani vicini invitavano alla sottomissione religiosa e politica.

“Dal fiume al mare”: il significato reale

In questo contesto, lo slogan “Dal fiume al mare” assume un significato ben preciso: la Palestina, compresa Gerusalemme, è considerata terra islamica e, in quanto tale, deve essere governata da autorità musulmane.

È questa visione che nel 1948 spinse i Paesi arabi a rifiutare la spartizione della Palestina: erano convinti di poter sconfiggere Israele militarmente e controllare l’intero territorio. Tale linea è coerente anche con la strategia della Lega Araba, che mantiene ancora oggi un dipartimento dedicato al boicottaggio del sionismo.

Riconoscimenti formali e realtà politiche

Nel 1993, con gli Accordi di Oslo, l’OLP mediante uno scambio di lettere di mutuo riconoscimento tra il governo israeliano e l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) in cui indirettamente  OLP  in rappresentanza dei palestinesi— riconobbe formalmente lo Stato di Israele. Tuttavia, nonostante l'apparente riconoscimento, il primo atto fondativo del 28/05/1964 si dichiarava:

  • l'art  2 dichiarava "La Palestina, con i suoi confini al tempo del Mandato britannico, è un’unità territoriale indivisibile." e
  • l'Articolo 4vdichiarava:"Il popolo della Palestina determina il proprio destino quando avrà completato la liberazione della sua patria, in conformità ai suoi desideri, alla sua libera volontà e scelta.

e con la revisione dell’Atto Fondativo dello Stato di Palestina del 25 marzo 2023 conferma un orientamento identitario chiaro attenuando la precedente carta fondativa comunque riaffermando indirettamente gli stessi obiettivi:

  • Articolo 4: Gerusalemme è dichiarata capitale dello Stato di Palestina.
  • Articolo 5: la lingua ufficiale è l’arabo, la religione ufficiale è l’Islam.

Questi principi, profondamente radicati, si scontrano con l’idea di coesistenza statale promossa in Occidente.

“Lupi” e “Pappagalli”: due coerenze diverse

I “lupi” — i leader palestinesi e parte del mondo arabo — sono coerenti con i loro obiettivi religiosi e politici: lo slogan “Dal fiume al mare” è perfettamente allineato alla dottrina islamica classica e alle strategie storiche arabe.

I “pappagalli” — le leadership occidentali — continuano invece a ripetere una formula diplomatica ormai disancorata dalla realtà, ignorando il fondamento religioso e ideologico che rende impraticabile la soluzione “due popoli, due Stati” così come concepita dagli europei.

La retorica politica semplifica questioni complesse. Dietro slogan apparentemente innocui si celano visioni del mondo incompatibili: da un lato, una prospettiva teologico-giuridica radicata nell’Islam; dall’altro, un approccio occidentale laico e diplomatico. Finché l’Occidente continuerà a comportarsi da “pappagallo” e non affronterà il nodo ideologico alla base del rifiuto arabo-palestinese, la soluzione dei “due popoli e due Stati” resterà un’illusione.

mercoledì 10 settembre 2025

La sinistra e l'islam: cosa non ha compreso la sinistra?

 La religione è l’oppio dei popoli, la celebre frase di Marx | Eroica

 

Woke e Islam: l’alleanza inattesa che divide l’Occidente

Una convergenza inaspettata si sta delineando tra la sinistra progressista, spesso definita “woke”, e il mondo islamico. Un’alleanza che, secondo alcuni osservatori, nasce da un duplice fraintendimento: la presunzione ideologica dei leader della sinistra globale e l’abile strategia dei leader religiosi islamici.

Alla base, spiegano gli analisti, c’è la convinzione tipica della sinistra che le religioni siano un fenomeno destinato a dissolversi con l’evoluzione del pensiero umano. Seguendo questa logica, il credo religioso – considerato da Marx “l’oppio dei popoli” – sarebbe destinato a implodere o a trasformarsi in una sorta di versione spirituale del socialismo.

Un esempio evidente di questa tendenza si riscontra nella Chiesa cattolica. Per sopravvivere, l’istituzione sembra inseguire la modernità, accettando aperture sul fronte dell’omosessualità, dell’inclusione sociale e delle battaglie a favore dei migranti. Papa Francesco è diventato il simbolo di questa transizione: un pontefice che sostituisce la difesa dell’ortodossia con un messaggio di empatia e inclusione universale. Ma per molti critici, questa strategia rischia di svuotare il cristianesimo della sua dimensione trascendente, riducendolo a un messaggio etico privo di radici teologiche profonde.

L’errore, sostiene chi denuncia questa convergenza, è stato applicare lo stesso schema di lettura anche all’Islam. Ma, a differenza del cattolicesimo, l’Islam mantiene un’identità forte, compatta, radicata nella fede e nella legge religiosa. Trattare l’Islam come una semplice religione influenzabile e assimilabile, spiegano gli esperti, significa ignorare la forza spirituale e comunitaria che caratterizza le società mediorientali.

L’Occidente, abituato a un modello culturale dominato dal consumismo, dall’individualismo e da un senso di spiritualità attenuato, fatica a comprendere culture per cui il trascendente è ancora centrale. L’esempio dei kamikaze giapponesi durante la Seconda guerra mondiale, disposti a sacrificarsi per l’imperatore, dimostra quanto l’Oriente segua logiche di identità e onore difficili da tradurre in categorie occidentali.

Quando un terrorista islamico compie un attentato suicida, in Europa si tende a spiegare l’evento come il gesto isolato di un folle. Ma per chi conosce la cultura islamica, questi atti sono coerenti con una visione religiosa che attribuisce un valore eroico al martirio.

La sinistra “accogliente”, secondo questa lettura, commette dunque un duplice errore: presume che l’identità religiosa possa essere repressa o rieducata e ignora la profonda spiritualità che anima molte società del Medio Oriente.

Di questa debolezza, sostengono i critici, approfittano i leader islamici, consapevoli delle contraddizioni delle società liberali. Lo usano come un “cavallo di Troia” per rafforzare la loro presenza in Occidente, dichiarando apertamente che sfrutteranno le stesse leggi democratiche per espandere la loro influenza.

E qui entra in gioco un altro elemento: l’odio verso Israele e gli ebrei. Per alcuni osservatori, la sinistra trova un punto di convergenza con il mondo islamico proprio sull’identità. In un’Europa che ha smarrito le proprie radici culturali e spirituali, gli unici a mantenere una forte identità collettiva sono gli ebrei. Da qui, spiegano, nasce la popolarità di slogan come “dal fiume al mare”, che unisce frange della sinistra radicale e dell’estrema destra nel desiderio di cancellare l’unica comunità identitaria che resiste, così da rendere l’Occidente più facilmente plasmabile.


martedì 9 settembre 2025

La sinistra e l’islam:una strana convergenza

 

La strana alleanza tra sinistra e islam politico: un paradosso del nostro tempo

La domanda è inevitabile: come è possibile che la sinistra, da sempre paladina delle battaglie civili per l’uguaglianza, i diritti delle donne e delle comunità LGBT+, oggi trovi un terreno di convergenza con l’islam politico e integralista, che sul piano culturale rappresenta l’esatto contrario di quei valori?

Il paradosso si manifesta con forza nel dibattito sulla crisi di Gaza. Da un lato, i movimenti progressisti sventolano le bandiere del pacifismo, della difesa delle minoranze e dell’emancipazione individuale. Dall’altro, si ritrovano accanto a realtà islamiste che negano quei principi, relegando la donna a un ruolo subordinato, criminalizzando l’omosessualità e imponendo la religione come unico fondamento sociale.

Globalismo come terreno comune

Le possibili spiegazioni sono diverse: ignoranza culturale, calcolo politico, ricerca di alleanze alternative al neoliberismo. Ma c’è anche un terreno ideologico comune: il globalismo.

La sinistra contemporanea tende a dissolvere concetti come nazione e patria in favore di una visione transnazionale e collettiva. Le differenze culturali vengono percepite come ostacoli, mentre il “politicamente corretto” diventa uno strumento per uniformare linguaggi e comportamenti: non più “mamma e papà”, ma “genitori”; non “immigrati”, ma “richiedenti asilo”.

In questa prospettiva, i diritti dei residenti vengono spesso compressi per non urtare la sensibilità delle minoranze. È un ribaltamento che, secondo i critici, finisce per minare la stessa identità culturale occidentale.

Islam politico e censura

Sorprendentemente, questa logica trova eco nell’islam politico, che si presenta come un progetto universale: la pace si raggiunge solo quando tutte le società saranno islamizzate e sottomesse al Corano.

Anche qui la censura è centrale: non si può criticare Allah o il testo sacro. Basti ricordare l’attacco terroristico del 2015 alla redazione di Charlie Hebdo, colpevole di aver pubblicato vignette satiriche su Maometto. Oppure le violente reazioni al discorso di Benedetto XVI a Regensburg (2006), quando il Papa citò un testo medievale critico verso la violenza religiosa: quelle parole furono sufficienti a scatenare proteste in tutto il mondo islamico.

Sono episodi che mostrano come il dissenso verso l’islam politico non sia tollerato, proprio come accade nei sistemi che puntano al pensiero unico.

Cavallo di Troia culturale

Entrambi i modelli – globalismo di sinistra e islamismo – puntano dunque a un’omologazione culturale. E non sorprende che molti leader islamici vedano nei movimenti progressisti un cavallo di Troia per penetrare legittimamente nel tessuto occidentale, fino a trasformarlo dall’interno.

A questo scenario si aggiunge la Chiesa cattolica, che in nome dell’accoglienza e del dialogo interreligioso ha spesso aperto spazi e strutture ai migranti musulmani, finendo di fatto per affiancarsi a questo processo di globalizzazione culturale.

La contraddizione irrisolta

Resta però una contraddizione evidente: come possono i movimenti femministi e LGBT+ marciare accanto ad associazioni islamiste che, nei territori in cui hanno potere, negano la parità di genere e perseguitano gli omosessuali?

La risposta non è univoca. È un paradosso figlio della geopolitica, del calcolo politico e, in parte, di una certa cecità ideologica. Una convivenza fragile, che oggi si regge sull’illusione di una battaglia comune contro l’Occidente neoliberale, ma che domani potrebbe rivelarsi una resa culturale irreversibile.

mercoledì 3 settembre 2025

Perché oggi assistiamo a un risveglio dell’antisemitismo/antigiudaismo?/Why are we witnessing a resurgence of anti-Semitism/anti-Judaism today?/Pourquoi assistons-nous aujourd’hui à une résurgence de l’antisémitisme/antijudaïsme ?/¿Por qué estamos asistiendo hoy a un resurgimiento del antisemitismo y del antijudaísmo?

Un’inchiesta sulle radici storiche, teologiche e politiche di un fenomeno che attraversa i secoli.

L’antisemitismo non è una piaga recente: affonda le sue radici nei primi secoli del cristianesimo. Il punto di svolta viene spesso individuato nel Concilio di Nicea (325 d.C.), quando la Chiesa nascente definì la deità di Gesù. Una scelta legittima sul piano della fede, ma che aprì la strada a un pericoloso equivoco: attribuire al popolo ebraico una colpa collettiva per la morte di “Dio incarnato”.

Da lì prese forma la cosiddetta "teologia della sostituzione": secondo questa visione, la Chiesa sarebbe la “nuova Israele”, unica erede delle promesse divine, mentre gli ebrei sarebbero stati rigettati a causa del loro presunto tradimento. Ma perché era necessario censurare e marginalizzare gli ebrei? La risposta sembra chiara: consolidare l’identità di una Chiesa che stava assumendo un ruolo politico e sociale sempre più forte.

Le tappe di una lunga persecuzione


Antichità tardo-romana e Alto Medioevo
IV-V secolo: limitazioni ai diritti civili e religiosi degli ebrei, divieto di costruire nuove sinagoghe, esclusione dalle cariche pubbliche.

Dal IV secolo: i Concili ecclesiastici introducono divieti di matrimoni misti e ulteriori restrizioni sociali e giuridiche.


Medioevo
VII secolo (Spagna visigota): conversioni forzate, confische e divieto di praticare il culto ebraico.

XI secolo (Prime Crociate): massacri di comunità ebraiche in Renania.

XII-XIII secolo: accuse infamanti di omicidio rituale e profanazione dell’ostia.

1215: il IV Concilio Lateranense impone agli ebrei segni distintivi, come la “rotella gialla”.

XIII secolo: roghi del Talmud e nuove espulsioni da vari regni europei.
 

Tardo Medioevo e Inizio Età Moderna
Espulsioni sistematiche: Inghilterra (1290), Francia (1306 e 1394), Spagna (1492), Portogallo (1496).

XIV secolo: durante la Peste Nera, pogrom in tutta Europa con l’accusa di avvelenare i pozzi.

XV secolo: l’Inquisizione perseguita i conversos, gli ebrei convertiti.

Età Moderna
Dal 1516: istituzione dei ghetti (il primo a Venezia), segregazione sociale e professionale.

Conversioni forzate di minori e orfani.

Umiliazioni rituali e obbligo di presenziare a prediche cristiane.
 

Età Contemporanea
Persistono discriminazioni legali fino all’Ottocento.

1858: il caso Mortara a Bologna (bambino ebreo battezzato segretamente e sottratto alla famiglia).

XIX-XX secolo: l’ostilità secolare alimenta un terreno favorevole all’antisemitismo moderno, che sfocerà nello sterminio nazista.

La posizione della Chiesa e il ruolo delle teologie

Secondo una lettura critica, la Chiesa cattolica ha avuto bisogno dell’antisemitismo per legittimare la propria identità. Un’interpretazione forte, che si basa sul fatto che per secoli la teologia della sostituzione è stata utilizzata per distinguere il “nuovo Israele” dal “vecchio”, attribuendo alla Chiesa un primato salvifico.

Diverso l’approccio delle comunità evangeliche, che hanno sviluppato la cosiddetta "teologia dell’innesto": i gentili che credono in Gesù non sostituiscono Israele, ma si innestano sull’albero dell’alleanza, che rimane radicato nel popolo ebraico. Questo spiega perché molti gruppi evangelici moderni siano apertamente sionisti, al contrario di gran parte del cattolicesimo.

Dal passato al presente: la questione palestinese

L’antisemitismo cattolico, sostengono alcuni analisti, oggi si manifesta in forme più sottili e ipocrite. Basta osservare il linguaggio di alcune testate vicine al mondo ecclesiale, come "Avvenire", che spesso riprendono la terminologia di emittenti filo-palestinesi come Al Jazeera: “territori occupati”, “genocidio”, “fame”, uccisione di bambini. Non mancano casi simbolici: sacerdoti che vestono statue di Gesù con la kefiah, altari adornati con la bandiera palestinese. Gesti che, anziché chiarire la complessità del conflitto, rischiano di alimentare un linguaggio dell’odio contro Israele, appoggiando di fatto le narrazioni di gruppi terroristici come Hamas. Infatti in questa testata, come in altre testate vicine alla sinistra, non si mettono mai a confronto le versioni: palestinese (HAMAS) e Israeliana, ma sempre e contuinuamente si prende per vera un'unica fonte quella di Al Jazeera che notoraimente veicola informazioni del Ministero della Sanità di Hamas, ovvero di terroristi.

Propaganda e antisemitismo: dal metodo Goebbels a Hamas

Un tassello decisivo per comprendere il radicarsi dell’antisemitismo moderno è il ruolo della propaganda. Joseph Goebbels, Ministro della Propaganda nazista, elaborò una tecnica semplice ed efficace:

  • La bugia come strumento di massa: non importa se ciò che si afferma sia vero, ciò che conta è che sia semplice, emotivo e ripetuto senza sosta.

  • La ripetizione crea realtà: una falsità, se ripetuta ossessivamente, diventa una verità percepita dalle masse.

  • Emozione contro ragione: le persone non vengono convinte con argomenti razionali, ma condizionate attraverso paura, odio e slogan.

Questo schema fu applicato con spietata coerenza contro gli ebrei dal regime nazista, trasformando accuse secolari (avidità, complotti, omicidi rituali) in “certezze popolari” che giustificarono persecuzioni e infine la Shoah.

Ma il metodo non è rimasto confinato al passato. Hamas ha fatto propria questa logica di propaganda, utilizzandola su scala globale:

  • diffondendo narrazioni distorte (Israele come “Stato genocida”, gli ebrei come “oppressori coloniali”);

  • ripetendo incessantemente questi messaggi attraverso media, social network e alleanze con emittenti internazionali;

  • facendo leva sulle emozioni collettive di rabbia e ingiustizia per colpire l’immagine di Israele in Occidente e minare la sua legittimità.

In sintesi: così come la propaganda nazista trasformò menzogne in realtà percepite, oggi Hamas utilizza la stessa strategia per alimentare l’antisemitismo in Occidente e indebolire lo Stato ebraico.

 Conclusioni

Dalla teologia della sostituzione alle prese di posizione sul conflitto israelo-palestinese, un filo rosso attraversa la storia del cristianesimo cattolico: la necessità, implicita o esplicita, di definire la propria identità in contrapposizione all’ebraismo.

Che oggi questo si traduca in forme di antisemitismo velato o in narrative filo-palestinesi, resta un fatto: l’ebraicità di Gesù continua a rappresentare una sfida teologica e identitaria per la Chiesa cattolica. Ed è forse proprio questo il motivo per cui l’antisemitismo, nonostante secoli di sangue e persecuzioni, conosce ancora un inquietante risveglio.

A questo scenario si aggiunge un elemento ulteriore: il metodo di propaganda elaborato da Joseph Goebbels, basato sulla ripetizione ossessiva della menzogna fino a trasformarla in verità percepita. Oggi questo schema è stato adottato da Hamas, che utilizza narrazioni manipolate per alimentare l’odio contro Israele in Occidente e indebolire lo Stato ebraico.

Il tutto è reso ancora più efficace dal supporto mediatico di alcune testate occidentali di sinistra e persino cattoliche, come Avvenire, che riprendono e diffondono terminologie e cornici narrative vicine a quelle della propaganda filo-palestinese. Un cortocircuito che, anziché promuovere chiarezza e riconciliazione, contribuisce a rinnovare — sotto forme nuove e apparentemente “legittimate” — il linguaggio dell’odio contro gli ebrei.

English version

 An Inquiry into the Historical, Theological and Political Roots of a Phenomenon that Spans Centuries

Antisemitism is not a recent plague: it has its roots in the earliest centuries of Christianity. The turning point is often identified with the Council of Nicaea (325 CE), when the nascent Church defined the divinity of Jesus. A legitimate choice on the level of faith, but one that opened the way to a dangerous misunderstanding: attributing to the Jewish people a collective guilt for the death of the “incarnate God.”

From there arose the so-called “theology of substitution”: according to this view, the Church would be the “new Israel,” the sole heir of the divine promises, while the Jews would have been rejected because of their alleged betrayal. But why was it necessary to censor and marginalize the Jews? The answer seems clear: to consolidate the identity of a Church that was assuming an ever more powerful political and social role.

The Stages of a Long Persecution

Late Roman Antiquity and Early Middle Ages

  • 4th–5th century: restrictions on the civil and religious rights of Jews, ban on building new synagogues, exclusion from public office.
  • From the 4th century: Church councils introduce bans on mixed marriages and further social and legal restrictions.

Middle Ages

  • 7th century (Visigothic Spain): forced conversions, confiscations and ban on practicing Jewish worship.
  • 11th century (First Crusade): massacres of Jewish communities in the Rhineland.
  • 12th–13th centuries: defamatory accusations of ritual murder and host desecration.
  • 1215: the Fourth Lateran Council imposes distinctive signs on Jews, such as the “yellow badge.”
  • 13th century: burnings of the Talmud and new expulsions from various European kingdoms.

Late Middle Ages and Early Modern Period

  • Systematic expulsions: England (1290), France (1306 and 1394), Spain (1492), Portugal (1496).
  • 14th century: during the Black Death, pogroms across Europe with the accusation of poisoning wells.
  • 15th century: the Inquisition persecutes the conversos, Jews converted to Christianity.

Modern Era

  • From 1516: establishment of ghettos (the first in Venice), social and professional segregation.
  • Forced conversions of minors and orphans.
  • Ritual humiliations and obligation to attend Christian sermons.

Contemporary Era

  • Legal discriminations persisted until the 19th century.
  • 1858 (Mortara case, Bologna): a Jewish child secretly baptized and taken from his family.
  • 19th–20th centuries: centuries of hostility fostered fertile ground for modern antisemitism, which culminated in the Nazi extermination.

The Position of the Church and the Role of Theologies

According to a critical interpretation, the Catholic Church needed antisemitism to legitimize its own identity. A strong interpretation, based on the fact that for centuries the theology of substitution was used to distinguish the “new Israel” from the “old,” attributing to the Church a salvific primacy.

The approach of evangelical communities is different: they developed the so-called “theology of grafting” — Gentiles who believe in Jesus do not replace Israel, but graft themselves onto the tree of the covenant, which remains rooted in the Jewish people. This explains why many modern evangelical groups are openly Zionist, in contrast to much of Catholicism.

From Past to Present: The Palestinian Question

Catholic antisemitism, some analysts argue, today manifests itself in more subtle and hypocritical forms. Just look at the language of certain outlets close to the ecclesial world, such as Avvenire, which often adopt the terminology of pro-Palestinian broadcasters such as Al Jazeera: “occupied territories,” “genocide,” “famine,” “killing of children.”

Symbolic cases are not lacking: priests dressing statues of Jesus with the keffiyeh, altars adorned with the Palestinian flag. Gestures which, instead of clarifying the complexity of the conflict, risk fueling a language of hatred against Israel, in fact supporting the narratives of terrorist groups like Hamas. Indeed, in this newspaper, as in other outlets close to the political left, the two versions — Palestinian (Hamas) and Israeli — are never compared, but a single source is continually and systematically taken as true: Al Jazeera, which notoriously conveys information from Hamas’ Ministry of Health — in other words, from terrorists.

Propaganda and Antisemitism: From the Goebbels Method to Hamas

A decisive key to understanding the entrenchment of modern antisemitism is the role of propaganda. Joseph Goebbels, Nazi Minister of Propaganda, devised a simple yet effective technique:

  • The lie as a tool for the masses: it doesn’t matter whether what is said is true; what matters is that it is simple, emotional, and endlessly repeated.
  • Repetition creates reality: a falsehood, if obsessively repeated, becomes a perceived truth among the masses.
  • Emotion over reason: people are not convinced by rational arguments but conditioned through fear, hatred and slogans.

This scheme was applied with ruthless consistency against the Jews by the Nazi regime, transforming age-old accusations (greed, conspiracies, ritual murders) into “popular certainties” that justified persecutions and ultimately the Shoah.

But the method did not remain confined to the past. Hamas has adopted this logic of propaganda, using it on a global scale:

  • spreading distorted narratives (Israel as a “genocidal state,” Jews as “colonial oppressors”);
  • relentlessly repeating these messages through media, social networks, and alliances with international broadcasters;
  • exploiting collective emotions of anger and injustice to damage Israel’s image in the West and undermine its legitimacy.

In summary: just as Nazi propaganda turned lies into perceived realities, today Hamas uses the same strategy to fuel antisemitism in the West and weaken the Jewish state.

Conclusions

From the theology of substitution to positions on the Israeli-Palestinian conflict, a red thread runs through the history of Catholic Christianity: the need, implicit or explicit, to define its identity in opposition to Judaism.

That today this translates into forms of veiled antisemitism or pro-Palestinian narratives remains a fact: the Jewishness of Jesus continues to represent a theological and identity challenge for the Catholic Church. And perhaps this is precisely why antisemitism, despite centuries of blood and persecution, still knows a disturbing resurgence.

To this scenario must be added another element: the propaganda method devised by Joseph Goebbels, based on the obsessive repetition of lies until they become perceived truth. Today this scheme has been adopted by Hamas, which manipulates narratives to fuel hatred against Israel in the West and weaken the Jewish state.

The whole process is made even more effective by the media support of certain left-wing Western outlets and even Catholic ones, such as Avvenire, which adopt and disseminate terminology and frameworks close to pro-Palestinian propaganda. A short circuit which, instead of promoting clarity and reconciliation, contributes to renewing — in new and apparently “legitimized” forms — the language of hatred against the Jews.

 French version

 Une enquête sur les racines historiques, théologiques et politiques d’un phénomène qui traverse les siècles

L’antisémitisme n’est pas un fléau récent : il plonge ses racines dans les premiers siècles du christianisme. Le tournant est souvent identifié avec le Concile de Nicée (325 ap. J.-C.), lorsque l’Église naissante a défini la divinité de Jésus. Un choix légitime sur le plan de la foi, mais qui a ouvert la voie à un dangereux malentendu : attribuer au peuple juif une culpabilité collective pour la mort du « Dieu incarné ».

De là est née la soi-disant « théologie de la substitution » : selon cette vision, l’Église serait le « nouvel Israël », seul héritier des promesses divines, tandis que les Juifs auraient été rejetés à cause de leur prétendue trahison. Mais pourquoi était-il nécessaire de censurer et de marginaliser les Juifs ? La réponse semble claire : consolider l’identité d’une Église qui assumait un rôle politique et social de plus en plus puissant.

Les étapes d’une longue persécution

Antiquité tardive et Haut Moyen Âge

  • IVe–Ve siècle : restrictions des droits civils et religieux des Juifs, interdiction de construire de nouvelles synagogues, exclusion des charges publiques.
  • À partir du IVe siècle : les conciles ecclésiastiques introduisent des interdictions de mariages mixtes et d’autres restrictions sociales et juridiques.

Moyen Âge

  • VIIe siècle (Espagne wisigothique) : conversions forcées, confiscations et interdiction de pratiquer le culte juif.
  • XIe siècle (Première Croisade) : massacres de communautés juives en Rhénanie.
  • XIIe–XIIIe siècles : accusations infamantes de meurtres rituels et de profanation d’hosties.
  • 1215 : le IVe Concile du Latran impose aux Juifs des signes distinctifs, comme la « rouelle jaune ».
  • XIIIe siècle : bûchers du Talmud et nouvelles expulsions de divers royaumes européens.

Bas Moyen Âge et Début de l’époque moderne

  • Expulsions systématiques : Angleterre (1290), France (1306 et 1394), Espagne (1492), Portugal (1496).
  • XIVe siècle : pendant la Peste Noire, pogroms dans toute l’Europe avec l’accusation d’empoisonner les puits.
  • XVe siècle : l’Inquisition persécute les conversos, Juifs convertis au christianisme.

Époque moderne

  • À partir de 1516 : création de ghettos (le premier à Venise), ségrégation sociale et professionnelle.
  • Conversions forcées de mineurs et d’orphelins.
  • Humiliations rituelles et obligation d’assister à des sermons chrétiens.

Époque contemporaine

  • Les discriminations légales persistent jusqu’au XIXe siècle.
  • 1858 (Affaire Mortara, Bologne) : un enfant juif secrètement baptisé et enlevé à sa famille.
  • XIXe–XXe siècles : des siècles d’hostilité préparent un terrain favorable à l’antisémitisme moderne, qui culminera dans l’extermination nazie.

La position de l’Église et le rôle des théologies

Selon une lecture critique, l’Église catholique a eu besoin de l’antisémitisme pour légitimer son identité. Une interprétation forte, fondée sur le fait que, pendant des siècles, la théologie de la substitution a servi à distinguer le « nouvel Israël » de l’« ancien », en attribuant à l’Église une primauté salvatrice.

L’approche des communautés évangéliques est différente : elles ont développé la « théologie de l’insertion » — les païens qui croient en Jésus ne remplacent pas Israël, mais s’insèrent dans l’arbre de l’alliance, qui reste enraciné dans le peuple juif. Cela explique pourquoi de nombreux groupes évangéliques modernes sont ouvertement sionistes, contrairement à une grande partie du catholicisme.

Du passé au présent : la question palestinienne

L’antisémitisme catholique, affirment certains analystes, se manifeste aujourd’hui sous des formes plus subtiles et hypocrites. Il suffit d’observer le langage de certains médias proches du monde ecclésial, comme Avvenire, qui reprennent souvent la terminologie de chaînes pro-palestiniennes comme Al Jazeera : « territoires occupés », « génocide », « famine », « enfants tués ».

Les cas symboliques ne manquent pas : prêtres habillant des statues de Jésus avec le keffieh, autels ornés du drapeau palestinien. Des gestes qui, au lieu d’éclairer la complexité du conflit, risquent d’alimenter un langage de haine contre Israël, soutenant de fait les récits de groupes terroristes comme le Hamas. En effet, dans ce quotidien comme dans d’autres journaux proches de la gauche, les deux versions — palestinienne (Hamas) et israélienne — ne sont jamais mises en parallèle : on adopte systématiquement comme unique source Al Jazeera, qui véhicule notoirement les informations du ministère de la Santé du Hamas, c’est-à-dire de terroristes.

Propagande et antisémitisme : de la méthode Goebbels au Hamas

Un élément décisif pour comprendre l’enracinement de l’antisémitisme moderne est le rôle de la propagande. Joseph Goebbels, ministre nazi de la Propagande, avait mis au point une technique simple mais efficace :

  • Le mensonge comme outil de masse : peu importe si ce qui est affirmé est vrai ; ce qui compte, c’est que ce soit simple, émotionnel et répété sans relâche.
  • La répétition crée la réalité : un mensonge, s’il est répété de façon obsessionnelle, devient une vérité perçue par les masses.
  • L’émotion contre la raison : les gens ne sont pas convaincus par des arguments rationnels, mais conditionnés par la peur, la haine et les slogans.

Ce schéma a été appliqué avec une cohérence impitoyable contre les Juifs par le régime nazi, transformant des accusations séculaires (avidité, complots, meurtres rituels) en « certitudes populaires » qui justifièrent persécutions et, en fin de compte, la Shoah.

Mais la méthode n’est pas restée confinée au passé. Le Hamas s’est approprié cette logique de propagande et l’a utilisée à l’échelle mondiale :

  • en diffusant des récits déformés (Israël comme « État génocidaire », les Juifs comme « oppresseurs coloniaux ») ;
  • en répétant sans cesse ces messages à travers les médias, les réseaux sociaux et des alliances avec des diffuseurs internationaux ;
  • en exploitant les émotions collectives de colère et d’injustice pour nuire à l’image d’Israël en Occident et miner sa légitimité.

En résumé : tout comme la propagande nazie a transformé des mensonges en réalités perçues, aujourd’hui le Hamas utilise la même stratégie pour alimenter l’antisémitisme en Occident et affaiblir l’État juif.

Conclusions

De la théologie de la substitution aux prises de position sur le conflit israélo-palestinien, un fil rouge traverse l’histoire du christianisme catholique : la nécessité, implicite ou explicite, de définir son identité en opposition au judaïsme.

Que cela se traduise aujourd’hui par des formes d’antisémitisme voilé ou par des récits pro-palestiniens reste un fait : la judéité de Jésus continue de représenter un défi théologique et identitaire pour l’Église catholique. Et c’est peut-être précisément la raison pour laquelle l’antisémitisme, malgré des siècles de sang et de persécutions, connaît encore une inquiétante résurgence.

À ce scénario s’ajoute un autre élément : la méthode de propagande mise au point par Joseph Goebbels, fondée sur la répétition obsessionnelle du mensonge jusqu’à ce qu’il devienne une vérité perçue. Aujourd’hui, ce schéma a été adopté par le Hamas, qui manipule les récits pour alimenter la haine contre Israël en Occident et affaiblir l’État juif.

Le tout est rendu encore plus efficace par le soutien médiatique de certains journaux occidentaux de gauche et même catholiques, comme Avvenire, qui adoptent et diffusent des terminologies et des cadres proches de la propagande pro-palestinienne. Un court-circuit qui, au lieu de promouvoir la clarté et la réconciliation, contribue à renouveler — sous des formes nouvelles et apparemment « légitimées » — le langage de la haine contre les Juifs.

Spanish version

Una investigación sobre las raíces históricas, teológicas y políticas de un fenómeno que atraviesa los siglos

El antisemitismo no es una plaga reciente: hunde sus raíces en los primeros siglos del cristianismo. El punto de inflexión suele identificarse con el Concilio de Nicea (325 d.C.), cuando la Iglesia naciente definió la divinidad de Jesús. Una elección legítima en el plano de la fe, pero que abrió el camino a un peligroso malentendido: atribuir al pueblo judío una culpa colectiva por la muerte del “Dios encarnado”.

De allí surgió la llamada “teología de la sustitución”: según esta visión, la Iglesia sería el “nuevo Israel”, único heredero de las promesas divinas, mientras que los judíos habrían sido rechazados a causa de su presunta traición. Pero ¿por qué era necesario censurar y marginar a los judíos? La respuesta parece clara: consolidar la identidad de una Iglesia que asumía un papel político y social cada vez más fuerte.

Las etapas de una larga persecución

Antigüedad tardía y Alta Edad Media

  • Siglos IV-V: limitaciones a los derechos civiles y religiosos de los judíos, prohibición de construir nuevas sinagogas, exclusión de los cargos públicos.
  • Desde el siglo IV: los concilios eclesiásticos introducen prohibiciones de matrimonios mixtos y otras restricciones sociales y jurídicas.

Edad Media

  • Siglo VII (España visigoda): conversiones forzadas, confiscaciones y prohibición de practicar el culto judío.
  • Siglo XI (Primera Cruzada): masacres de comunidades judías en Renania.
  • Siglos XII-XIII: acusaciones infamantes de asesinatos rituales y profanación de hostias.
  • 1215: el IV Concilio de Letrán impone a los judíos signos distintivos, como la “rodela amarilla”.
  • Siglo XIII: hogueras del Talmud y nuevas expulsiones de varios reinos europeos.

Baja Edad Media e Inicio de la Edad Moderna

  • Expulsiones sistemáticas: Inglaterra (1290), Francia (1306 y 1394), España (1492), Portugal (1496).
  • Siglo XIV: durante la Peste Negra, pogromos en toda Europa con la acusación de envenenar pozos.
  • Siglo XV: la Inquisición persigue a los conversos, judíos convertidos al cristianismo.

Edad Moderna

  • Desde 1516: creación de guetos (el primero en Venecia), segregación social y profesional.
  • Conversiones forzadas de menores y huérfanos.
  • Humillaciones rituales y obligación de asistir a sermones cristianos.

Edad Contemporánea

  • Las discriminaciones legales persistieron hasta el siglo XIX.
  • 1858 (caso Mortara, Bolonia): un niño judío bautizado en secreto y arrebatado a su familia.
  • Siglos XIX-XX: siglos de hostilidad prepararon un terreno favorable para el antisemitismo moderno, que culminó en el exterminio nazi.

La posición de la Iglesia y el papel de las teologías

Según una interpretación crítica, la Iglesia católica necesitó del antisemitismo para legitimar su identidad. Una interpretación fuerte, basada en el hecho de que durante siglos la teología de la sustitución se utilizó para distinguir al “nuevo Israel” del “antiguo”, atribuyendo a la Iglesia una primacía salvífica.

El enfoque de las comunidades evangélicas es diferente: desarrollaron la llamada “teología del injerto” —los gentiles que creen en Jesús no reemplazan a Israel, sino que se injertan en el árbol de la alianza, que permanece enraizado en el pueblo judío. Esto explica por qué muchos grupos evangélicos modernos son abiertamente sionistas, a diferencia de gran parte del catolicismo.

Del pasado al presente: la cuestión palestina

El antisemitismo católico, según algunos analistas, hoy se manifiesta en formas más sutiles e hipócritas. Basta observar el lenguaje de ciertos medios cercanos al mundo eclesial, como Avvenire, que a menudo adoptan la terminología de cadenas pro-palestinas como Al Jazeera: “territorios ocupados”, “genocidio”, “hambre”, “niños asesinados”.

No faltan casos simbólicos: sacerdotes que visten estatuas de Jesús con la kefiah, altares adornados con la bandera palestina. Gestos que, en lugar de aclarar la complejidad del conflicto, corren el riesgo de alimentar un lenguaje de odio contra Israel, apoyando de hecho las narrativas de grupos terroristas como Hamas. De hecho, en este periódico, como en otros cercanos a la izquierda, nunca se contrastan las dos versiones —palestina (Hamas) e israelí—, sino que siempre y continuamente se da por cierta una única fuente: Al Jazeera, que notoriamente transmite la información del Ministerio de Salud de Hamas, es decir, de terroristas.

Propaganda y antisemitismo: del método Goebbels a Hamas

Un elemento decisivo para comprender el arraigo del antisemitismo moderno es el papel de la propaganda. Joseph Goebbels, ministro nazi de Propaganda, ideó una técnica simple pero eficaz:

  • La mentira como herramienta de masas: no importa si lo que se afirma es cierto; lo que importa es que sea simple, emotivo y repetido sin cesar.
  • La repetición crea realidad: una falsedad, si se repite obsesivamente, se convierte en una verdad percibida por las masas.
  • Emoción contra razón: la gente no se convence con argumentos racionales, sino que se condiciona mediante el miedo, el odio y los eslóganes.

Este esquema fue aplicado con implacable coherencia contra los judíos por el régimen nazi, transformando acusaciones seculares (avaricia, complots, asesinatos rituales) en “certezas populares” que justificaron persecuciones y, en última instancia, la Shoah.

Pero el método no quedó confinado al pasado. Hamas se ha apropiado de esta lógica de propaganda, utilizándola a escala global:

  • difundiendo narrativas distorsionadas (Israel como “Estado genocida”, los judíos como “opresores coloniales”);
  • repitiendo incesantemente estos mensajes a través de medios de comunicación, redes sociales y alianzas con emisoras internacionales;
  • explotando emociones colectivas de ira e injusticia para dañar la imagen de Israel en Occidente y socavar su legitimidad.

En resumen: así como la propaganda nazi transformó mentiras en realidades percibidas, hoy Hamas utiliza la misma estrategia para alimentar el antisemitismo en Occidente y debilitar al Estado judío.

Conclusiones

Desde la teología de la sustitución hasta las posturas sobre el conflicto israelí-palestino, un hilo rojo recorre la historia del cristianismo católico: la necesidad, implícita o explícita, de definir su identidad en oposición al judaísmo.

Que hoy esto se traduzca en formas de antisemitismo velado o en narrativas pro-palestinas sigue siendo un hecho: la judeidad de Jesús continúa representando un desafío teológico e identitario para la Iglesia católica. Y quizás sea precisamente por ello que el antisemitismo, a pesar de siglos de sangre y persecuciones, aún conoce un inquietante resurgimiento.

A este escenario se suma otro elemento: el método de propaganda ideado por Joseph Goebbels, basado en la repetición obsesiva de la mentira hasta transformarla en verdad percibida. Hoy este esquema ha sido adoptado por Hamas, que manipula narrativas para alimentar el odio contra Israel en Occidente y debilitar al Estado judío.

Todo ello se ve reforzado por el apoyo mediático de ciertos periódicos occidentales de izquierda e incluso católicos, como Avvenire, que adoptan y difunden terminologías y marcos cercanos a la propaganda pro-palestina. Un cortocircuito que, en lugar de promover claridad y reconciliación, contribuye a renovar —bajo formas nuevas y aparentemente “legitimadas”— el lenguaje del odio contra los judíos.

 




L’inganno del dialogo interreligioso

  Le leadership occidentali, laiche o di matrice cristiana, appaiono oggi prive di una reale consapevolezza della cosiddetta “questione isla...