sabato 22 novembre 2025

Lettera aperta agli antisionisti di destra– Parte II

 

L’impero romano-introduzione

Roma e Gerusalemme

Quando mettiamo a confronto Roma e Gerusalemme, non stiamo semplicemente accostando due città antiche: stiamo osservando due idee opposte di comunità, potere e identità.

Roma nasce come un piccolo insediamento latino che, nel giro di pochi secoli, assorbe, conquista e unifica una miriade di popoli italici diversi: Etruschi, Sabini, Sanniti, Umbri, Veneti, Lucani, Celti. La sua missione storica diventa chiara fin dall’inizio: espandere, integrare, dominare. Roma forgia un progetto politico universale, in cui la cittadinanza non dipende dal sangue ma dall’appartenenza allo Stato. È una visione imperialista e inclusiva, che trasforma una città in un impero e un impero in un’identità.

Gerusalemme è esattamente il contrario.
Non nasce per unire popoli diversi, né per espandere confini. Diventa capitale con re Davide e custodisce il Tempio con re Salomone: il suo significato non è politico ma sacro. Gerusalemme è il centro religioso di un solo popolo — gli Ebrei — e il simbolo della loro alleanza con Dio. Non aspira a inglobare altre nazioni: aspira a preservare la propria. È una città che non definisce un impero, ma definisce un’identità spirituale.

Così, mentre Roma costruisce l’unità imponendola dall’alto,
Gerusalemme custodisce l’unità perché la riceve dall’Alto.

Il parallelismo tra le due città rivela quindi una verità fondamentale:
Roma rappresenta l’ambizione politica dell’universalità;
Gerusalemme rappresenta la radice religiosa della particolarità.

Due modelli opposti, due vocazioni diverse, due modi di concepire la storia degli uomini.

Nascita e sviluppo dell'impero

Roma comincia la sua storia tra il X e l’VIII secolo a.C. come un piccolo villaggio latino sulle rive del Tevere. In quel momento, mentre Roma muove i primi passi come insediamento locale, Israele è già un regno unificato sotto due figure storiche e fondative: Davide e Salomone (X secolo a.C.). Roma diventa una monarchia e solo in seguito, nel 509 a.C., si trasforma in Repubblica. Nello stesso arco di tempo, nel Vicino Oriente, il regno di Israele si era già diviso in due stati distinti:

  • Regno di Israele (Nord)
  • Regno di Giuda (Sud)

Il regno di Giuda sopravvive fino all’esilio babilonese del 586 a.C., un evento drammatico ma non definitivo.

Roma si espande, Israele resiste e ricostruisce

Tra il V e il IV secolo a.C., Roma entra in una fase di grande espansione nella penisola italiana: conquista Etruschi, Sanniti, Umbri, Celti e procede verso l’unificazione militare e politica dell’Italia. Nello stesso periodo, gli Ebrei ritornano dall’esilio e ricostruiscono il Secondo Tempio (516 a.C.). È l’epoca delle dominazioni persiana ed ellenistica, ma nonostante i poteri stranieri la comunità ebraica mantiene continuità culturale, religiosa e identitaria.

Due destini paralleli: un impero e un regno che risorge

Tra il III e il II secolo a.C., Roma conquista tutto il Mediterraneo: Cartagine, Grecia, Siria. Diventa una potenza imperiale. Contemporaneamente, nella storia ebraica si afferma la dinastia asmonea (descritta nei Libri dei Maccabei). A seguito della rivolta dei Maccabei, gli Ebrei riconquistano la sovranità e fondano lo Stato giudaico indipendente (140–63 a.C.). È un periodo di piena autonomia nazionale.

Roma diventa Impero, Israele mantiene identità

Tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. nasce l’Impero Romano. Nel 63 a.C., Roma conquista la Giudea (non “la Palestina”, denominazione successiva). Nonostante la dominazione romana, gli Ebrei mantengono la loro identità, la loro lingua, la loro legge e il loro Tempio. Nel 70 d.C., con l’Impero al suo apice sotto la dinastia flavia, Tito distrugge il Secondo Tempio. Ma questo non cancella il popolo ebraico: esso continua a vivere sia in Terra Santa sia nella diaspora.

Le rivolte e la continuità ebraica in Terra d’Israele

Tra il 132 e il 135 d.C., Roma reprime la rivolta di Bar Kokhba. La Giudea viene duramente colpita e molti Ebrei vengono dispersi. Tuttavia una parte significativa della popolazione ebraica rimane stabilmente in Galilea e in altre regioni della Terra d’Israele.

Tra il II e il IV secolo d.C., mentre l’Impero Romano raggiunge la sua massima estensione, la vita ebraica continua attivamente in Galilea, nel Golan, a Gerusalemme, a Lydda e a Tiberiade. Proprio in questo periodo viene redatta la Mishnah (II secolo d.C.), uno dei testi fondamentali dell’ebraismo rabbinico. Nel IV secolo d.C. Roma si cristianizza (Editto di Milano 313; Teodosio 380), mentre la presenza ebraica in Terra d’Israele continua ininterrotta anche sotto il dominio bizantino.

Gli italiani non esistevano. Gli Ebrei sì.

Durante tutto questo periodo la penisola italiana non ha ancora un popolo unitario.
È composta da: Latini, Etruschi, Umbri, Sabini, Sanniti, Lucani, Bruzi, Veneti, Liguri, Celti (Galli cisalpini), Iapigi (Dauni, Peucezi, Messapi), Greci della Magna Grecia, Sardi nuragici, Siculi, Sicani, Elimi. Non esiste un’identità italiana.Non esiste un popolo italiano.Non esiste una lingua italiana. Gli “Italiani” come identità etno-nazionale nasceranno solo molti secoli dopo, tra Medioevo ed età moderna.

Conclusione chiara e inequivocabile

Quando Roma stava ancora unificando i popoli italici e mentre gli “italiani” non esistevano come popolo, gli Ebrei erano già da tempo una nazione con una propria terra, una propria lingua, una propria cultura e una capitale: Gerusalemme. La storia non lascia margini di dubbio.

 

Lettera aperta agli antisionisti di destra– Parte I

 


Iniziamo dalla preistoria

Questa riflessione nasce da un punto cieco che molti, nella destra antisionista, continuano a ignorare: la concezione di patria che difendono con orgoglio è sorprendentemente simile alla visione sionista, eppure la contrastano come se rappresentasse un nemico ideologico.
Chiedi a un uomo di destra quali siano i cardini della sua identità e di solito risponde: Dio, Patria, Famiglia. Chiedi a un sionista e il contenuto è lo stesso: Dio (ebraismo), Patria (Israele), Famiglia. Le radici emotive, culturali, spirituali: identiche. E tuttavia, uno percepisce l’altro come antitetico. Non per ragioni storiche, ma per il peso di un mito costruito – il presunto “complotto ebraico” – alimentato per decenni da falsificazioni e letture distorte della tradizione ebraica.

A rendere il quadro ancora più paradossale contribuisce un altro fatto: l’antisionismo di destra e quello di sinistra finiscono per toccarsi, pur partendo da premesse opposte.
La matrice comunista ha sempre visto nelle identità nazionali un ostacolo e nella religione un impedimento ideologico. Da qui la fascinazione per un Islam politico percepito non come fede, ma come strumento di unificazione collettiva dentro un progetto “internazionalista”. Il risultato? Entrambi i fronti, per motivi diversi, hanno adottato la “causa palestinese” come vessillo: una causa che, storicamente, è stata modellata da diversi regimi arabi come leva geopolitica contro l’Occidente cristiano.

Ed ecco il nodo che nessuno vuole vedere: molti antisionisti di destra finiscono per sostenere proprio quei movimenti islamisti che vogliono distruggere i valori che loro ritengono sacri – Dio, Patria, FamigliaUna contraddizione gigantesca, resa possibile dalla scarsa conoscenza della storia del sionismo e della radice storica dell’identità ebraica.

Per capire meglio, torniamo indietro: alla preistoria.

Se mettiamo a confronto la formazione dei popoli italiani e quella dei popoli del Medio Oriente, la differenza temporale appare enorme.

Fine dell’Età del Bronzo (2200–1200 a.C.)

In Italia non esistevano gli “italiani”. La penisola era una scacchiera di gruppi differenti:

  • al Nord genti alpine e transalpine, spesso pre-indoeuropee;
  • al Centro popolazioni locali, non ancora strutturate in “popoli” storici;
  • al Sud Micenei, Ciprioti, Fenici e altri navigatori del Mediterraneo.

I popoli che conosciamo – Etruschi, Latini, Umbri, Sanniti, Veneti – non erano ancora nati. Compariranno solo nell’Età del Ferro (1000–900 a.C.). In quel periodo non esisteva alcun popolo italiano.

Nel frattempo, nel Medio Oriente…La situazione era completamente diversa.
Qui esistevano già stati veri e propri:

  • Hittiti,
  • regni siriaci,
  • Fenici,
  • Aramei (dai quali deriva Abramo),
  • prime formazioni politiche ebraiche (Israele e Giuda),
  • stati neo-ittiti anatolici.

Gli Arabi non erano ancora comparsi come entità storica, ma gli Ebrei sì: popolo, identità, lingua, culto.

Età del Ferro (900–300 a.C.)

In Italia finalmente compaiono identità più definite:

  • Etruschi,
  • Latini,
  • Sabini,
  • Umbri,
  • Piceni,
  • Golasecca e Leponti al Nord (culture celtiche),
  • DauniPeucezi e Messapi al Sud (origine balcanica),
  • SiculiSicaniElimi in Sicilia.

Un mosaico di lingue, culti, tradizioni diverse: nessun popolo unitario.

Nel Medio Oriente, invece, dominano imperi strutturati e centralizzati:

  • Neo-Assiro,
  • Neo-Babilonese,
  • Persiano achemenide.

E fra i popoli soggetti a questi imperi ci sono gli Ebrei, già pienamente riconoscibili come nazione storica.

Il caso specifico d’Israele

  • Età del Ferro I (1200–1000 a.C.): le tribù israelitiche sono già insediate in Samaria e Giudea.
  • Età del Ferro II (1000–586 a.C.): si forma il Regno Unito di Israele, che poi si divide in:
    • Regno di Israele (Nord, capitale Samaria),
    • Regno di Giuda (Sud, capitale Gerusalemme).

Parliamo di un popolo con una storia, una lingua, una fede e una struttura politica ben definite.

E l’Italia?

Fino al IV–III secolo a.C. non esisteva alcun popolo unitario: solo Etruschi, Latini, Sabini, Umbri, Piceni, Sanniti, Lucani, Bruzi, Veneti, Liguri, Celti, Iapigi, Siculi, Sicani, Elimi, Sardi nuragici. Ognuno con tradizioni e lingue proprie. L’identità unitaria nascerà soltanto con Roma.

La conclusione è inevitabile: quando gli Ebrei erano già un popolo con città, una cultura e una lingua, gli italiani non esistevano ancora.
Questa è storia, non ideologia. Ed è proprio da qui che occorre partire per comprendere la legittimità storica dell’idea di patria nel pensiero ebraico – la stessa idea che molti antisionisti di destra difendono quando parlano dell’Italia, ma rifiutano quando riguarda Israele.


mercoledì 12 novembre 2025

Il grande equivoco: perché l’antisionismo tradisce i valori della destra

 



C’è un paradosso profondo nel pensiero di una parte della destra europea e italiana: si dice patriottica, cristiana e difensore della civiltà occidentale, ma spesso si schiera contro Israele e contro il sionismo. Un errore ideologico, nato da vecchi pregiudizi e da un malinteso culturale che affonda le radici nella storia dell’antisemitismo cattolico e nelle teorie complottiste del Novecento.

Il mito dei “Protocolli dei Savi di Sion”

Tutto parte da un falso.
I Protocolli dei Savi di Sion, pubblicati in Russia all’inizio del Novecento, sono un documento completamente inventato dai servizi zaristi per accusare gli ebrei di voler conquistare il mondo.
Nonostante la loro falsità sia stata dimostrata già da un secolo, molti ambienti nazionalisti e fascisti li hanno presi sul serio, convinti che, pur essendo falsi “storicamente”, rivelassero una verità “spirituale”: cioè, che gli ebrei, attraverso la loro visione messianica, aspirassero al dominio universale. Questa idea è stata rilanciata da Julius Evola, uno dei principali riferimenti della destra culturale italiana. Evola sosteneva che, anche se falsi, i Protocolli sarebbero “autentici nello spirito”, perché rifletterebbero l’essenza del pensiero ebraico: la promessa di un Regno universale.
Ma qui sta l’errore. Evola confonde la speranza messianica ebraica, che è religiosa e spirituale, con un progetto politico di dominio, che non esiste né nella Bibbia né nella tradizione ebraica.

Il messianismo ebraico non è un piano di conquista

Nell’ebraismo, il Messia non è un conquistatore terreno, ma un inviato divino che porterà pace, giustizia e armonia tra le nazioni. Non si tratta di un popolo che domina gli altri, ma di un mondo in cui tutte le nazioni riconoscono un unico D-o e vivono in pace. Attribuire agli ebrei un sogno di dominio è una distorsione nata fuori dal giudaismo, e in particolare dalla cultura antigiudaica della Chiesa cattolica medievale.

Per secoli, la teologia cattolica ha insegnato che gli ebrei erano “il popolo che ha rifiutato Cristo” e che quindi D-o li aveva abbandonati, sostituendo Israele con la Chiesa: è la cosiddetta “teologia della sostituzione”. Questa dottrina ha giustificato persecuzioni, espulsioni e conversioni forzate, fino ad arrivare all’Inquisizione spagnola, dove gli ebrei convertiti (i “conversos”) venivano sospettati di praticare in segreto la loro fede. Da lì nascono i miti più assurdi: l’accusa di deicidio, di omicidi rituali, di usura e di complotti segreti.

Dalla leggenda medievale al complotto moderno

Quelle stesse leggende antiche si sono trasformate nei secoli in nuove versioni dello stesso pregiudizio: dal “complotto ebraico” medievale al “complotto giudeo-massonico” dei giorni nostri.
Ma la radice è sempre la stessa: l’ignoranza teologica.
Molti cattolici si sono formati più sul catechismo che sulla Bibbia, accettando come verità racconti senza fondamento.
Al contrario, i cristiani evangelici, che studiano la Bibbia fin dall’infanzia, hanno sempre riconosciuto il legame spirituale e profetico tra il popolo ebraico e la Terra di Israele.
Ecco perché, negli Stati Uniti, dove la base cristiana è in gran parte evangelica, il sostegno a Israele è fortissimo: nasce da conoscenza, non da pregiudizio.

Il sionismo: patria, non potere

Il sionismo non è un piano di dominio mondiale.
È il movimento che ha permesso al popolo ebraico, dopo duemila anni di esilio e persecuzioni, di tornare nella propria patria.
Non per conquistare altri popoli, ma per ricostruire la propria casa.
Israele non è un impero: è una democrazia circondata da regimi spesso ostili, che difende la propria esistenza in nome della libertà e del diritto alla vita del suo popolo.

L’ebraismo insegna che le nazioni sono tutte volute da D-o, ciascuna con la propria terra e il proprio destino.
Israele, nel disegno biblico, non deve dominare le altre, ma essere un “faro tra le nazioni”: un esempio morale e spirituale.
È questa la vera vocazione messianica, non il potere terreno.

Il vero paradosso della destra

Chi oggi si dice patriota, difensore della fede e dei valori tradizionali, non può essere antisionista senza contraddirsi. Perché il sionismo è esattamente questo: amore per la propria terra, fedeltà a D-o, centralità della famiglia e del popolo.  Sono gli stessi principi che la destra europea rivendica per sé. Essere contro Israele significa, di fatto, schierarsi contro l’idea stessa di patria e di radici.

Chi attacca Israele in nome dell’“antiglobalismo” dimentica che gli ebrei sono stati, nella storia, tra le prime vittime del vero globalismo ideologico: quello dell’uniformità religiosa imposta dalla Chiesa medievale e dai totalitarismi moderni.

Riscoprire la coerenza

L’antisionismo della destra non è un segno di coerenza ideologica, ma di confusione.
Si alimenta di un falso storico, di una teologia superata e di un pregiudizio ereditato dall’antisemitismo cattolico.  Difendere Israele non significa condividere ogni sua politica, ma riconoscere un legame spirituale e culturale profondo: quello tra la libertà di un popolo e il diritto di ogni nazione ad avere una patria.

In fondo, Israele rappresenta proprio ciò che la destra dice di voler difendere:
Patria, D-o, Famiglia, Identità e Tradizione.
Essere antisionisti significa negare questi stessi valori.  E dunque, chi davvero ama la propria terra e la propria fede, non può che vedere nel sionismo un alleato naturale, non un nemico.

sabato 8 novembre 2025

Gesù e Paolo furono i primi sionisti

 


Il Sionismo inteso come ritorno nella terra promessa, nel Nuovo Testamento

Antefatto storico – biblico condiviso da tutti i cristiani

Sulla questione del “Sionismo” e del diritto degli ebrei al ritorno nella loro terra, come promessa ad Abramo, è necessario partire da un punto storico-teologico che è discriminante perché nel cristianesimo non c’è una visione comune; quindi prima di entrare nell’analisi occorre un richiamo storico su come era governata la terra santa – Palestina: Divisione del Regno (931 a.C.) in Regno del Nord (Israele) costituito dalle 10 tribù (detto anche “Casa d’Israele”) e Regno del Sud (Giuda) costituito da 2 tribù (Giuda e Beniamino, detta “Casa di Giuda”). La tribù di Levi non aveva territorio proprio, ma viveva in città sacerdotali sparse.

La deportazione delle dieci tribù in Assiria e nelle regioni dell’impero mesopotamico, sono le tribù che vengono poi ricordate come le “Dieci tribù perdute di Israele” nei vangeli. Infatti alcuni gruppi discendenti (o ritenuti tali) sarebbero migrati successivamente verso est (Asia centrale, India) o ovest (Mediterraneo), dando origine secondo la tradizione orale a ipotesi di continuità etnica (ad esempio: ebrei bukhariani, falascia d’Etiopia, beni menashe dell’India, ecc.).  Inoltre abbiamo la deportazione degli ebrei del Regno di Giuda (586 a.C.) a seguito della conquista di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor II (Babilonesi) e dopo l’editto di Ciro di Persia (538 a.C.), una parte del popolo ebraico ritornò a Gerusalemme, ma molte famiglie rimasero nella diaspora.

In questo contesto possiamo comprendere il senso della predicazione di Gesù della casa di Davide e quindi della tribù di Giuda; per comprendere le affermazioni di Gesù (maestro di Torah) occorre ricordare le precedenti persecuzioni degli ebrei: La prima diaspora: l’esilio babilonese (586 a.C.), distruzione del Primo Tempio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor II, re di Babilonia, nascita delle prime comunità ebraiche fuori da Israele: Babilonia (Iraq odierno), Persia, Egitto. La diaspora ellenistica (IV–I sec. a.C.), a seguito delle conquiste di Alessandro Magno e diffusione della cultura greca. Molti ebrei si stabiliscono nelle città ellenistiche (Alessandria d’Egitto, Antiochia, Efeso, Atene). Aree della diaspora: Egitto, Siria, Asia Minore, Grecia, Cirenaica. In questo contesto Gesù predicava in Samaria e Giudea

In Matteo 15:24 Gesù disse  «Ma egli rispose: Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele». Quando scelse e raggruppo i primi 12 discepoli disse loro: Matteo 10:5–6 «Questi dodici Gesù li inviò dopo aver dato loro queste istruzioni: Non andate tra i pagani e non entrate in nessuna città dei Samaritani; andate piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele.» È la prima missione apostolica. Gesù limita l’annuncio ai confini del popolo ebraico, mostrando la priorità della chiamata messianica a Israele prima dell’estensione universale. In Giovanni 10:14–16 «Io sono il buon pastore; conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. Ho anche altre pecore che non sono di questo ovile; anche quelle io devo condurre, ed esse ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo gregge e un solo pastore.». Considerando queste dichiarazioni possiamo affermare che Gesù fu il primo sionista della storia, promuovendo il ritorno della diaspora ebraica a Sion.

Non dimentichiamo un altro sionista, il dolore di Paolo per Israele (Romani 9:1–5): “Io dico la verità in Cristo, non mento, la mia coscienza me lo conferma nello Spirito Santo: ho una grande tristezza e un continuo dolore nel cuore. Vorrei essere io stesso anatema, separato da Cristo, per i miei fratelli, miei parenti secondo la carne, che sono Israeliti…Paolo, ebreo di nascita, soffre profondamente perché Israele, pur avendo ricevuto l’Alleanza, la Legge e i Profeti, non ha riconosciuto il Messia. Tuttavia, egli ribadisce che le promesse di Dio verso Israele non sono venute meno. L’albero d’ulivo: Israele e i gentili (Romani 11:17–24) “Se alcune delle branche sono state tagliate e tu, che sei un olivo selvatico, sei stato innestato… non insuperbirti, ma temi.” Il mistero del futuro d’Israele (Romani 11:25–27) “Un indurimento parziale si è prodotto in Israele, finché sia entrata la totalità dei pagani. Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: ‘Da Sion verrà il Liberatore…’” Paolo rivela un mistero: l’indurimento di Israele è parziale e temporaneo. Alla fine dei tempi, Dio manterrà la sua promessa: Israele sarà salvato. Dio non ha rigettato Israele, ma ha esteso la salvezza a tutti i popoli; e alla fine, il popolo d’Israele tornerà alla fede per la grazia di Dio.

Quindi dobbiamo concludere che l'antisionismo è un sentimento che tradisce lo stesso pensiero di Gesù 

mercoledì 5 novembre 2025

Protocolli dei Savi di Sion

 



Protocolli dei Savi di Sion o degli Anziani di Sion o dei savi Anziani di Sion

I Protocolli dei Savi di Sion (o Anziani di Sion) sono uno dei più famigerati falsi documenti della storia moderna. Redatti nei primi anni del XX secolo in Russia dall’Ochrana, la polizia segreta zarista, avevano l’obiettivo di alimentare l’odio contro gli ebrei e deviare il malcontento sociale dell’Impero russo. Il testo, presentato come la trascrizione di un piano segreto elaborato da capi ebrei e massoni per conquistare il mondo attraverso il controllo dei media, della finanza e della politica, fu pubblicato per la prima volta nel 1903 da Pavel Kruševan e diffuso poi da Sergej Nilus nel 1905.

La falsità del documento fu dimostrata già nei primi anni successivi alla sua pubblicazione: nel 1921 The Times e nel 1924 la Frankfurter Zeitung dimostrarono che i Protocolli erano un plagio di un’opera satirica francese del 1864, Dialogo agli Inferi tra Machiavelli e Montesquieu di Maurice Joly, scritta contro Napoleone III. Da essa furono riprese intere frasi, adattate in chiave antisemita. Altri elementi derivavano dal romanzo Biarritz di Hermann Goedsche, che descriveva una riunione immaginaria di rabbini nel cimitero ebraico di Praga.

Nonostante le prove schiaccianti del plagio, il testo trovò enorme diffusione. In Russia venne usato per giustificare i pogrom e le repressioni antiebraiche; dopo la Rivoluzione bolscevica del 1917, divenne un’arma ideologica nelle mani delle fazioni controrivoluzionarie, che identificarono il bolscevismo come parte di una cospirazione ebraica mondiale. Negli anni Venti e Trenta, i Protocolli furono poi adottati dalla propaganda nazista tedesca: Hitler li citò nel Mein Kampf, considerandoli “prova” della natura malvagia degli ebrei. In Germania divennero lettura obbligatoria nelle scuole e uno dei pilastri della giustificazione dello sterminio.

Il processo di Berna del 1935, in Svizzera, confermò ufficialmente la loro falsità, definendoli “plagio e letteratura oscena”. Tuttavia, la loro diffusione non cessò: Henry Ford ne finanziò la pubblicazione di mezzo milione di copie negli Stati Uniti; in Italia vennero rilanciati da Giovanni Preziosi e Julius Evola; nel mondo arabo e islamico restano tuttora strumenti di propaganda antisionista.

Il contenuto dei Protocolli si articola in ventiquattro capitoli che descrivono una presunta strategia per dominare il mondo: manipolare l’opinione pubblica tramite la stampa, corrompere i governi, distruggere la morale cristiana, fomentare rivoluzioni e crisi economiche. Gli “anziani di Sion” vi si vantano di guidare i gentili (i goyim) verso la rovina morale e politica, fino all’instaurazione di una teocrazia ebraica globale. In realtà, queste idee non rappresentano altro che la proiezione paranoica dei pregiudizi antisemiti dell’epoca, che attribuivano agli ebrei la colpa dei mutamenti sociali e politici legati alla modernità.

Gli studiosi e i tribunali di tutto il mondo hanno da tempo riconosciuto i Protocolli come un falso costruito con finalità di propaganda e di persecuzione. Tuttavia, il loro impatto culturale è stato duraturo: rappresentano l’archetipo delle moderne teorie del complotto e continuano a essere riproposti da movimenti estremisti, antisemiti e negazionisti. L’opera non documenta alcun “piano ebraico di dominio”, ma solo la storia di una menzogna che, costruita ad arte, ha alimentato l’odio e contribuito a tragedie immani come la Shoah.

 

domenica 26 ottobre 2025

L’inganno del dialogo interreligioso

 



Le leadership occidentali, laiche o di matrice cristiana, appaiono oggi prive di una reale consapevolezza della cosiddetta “questione islamica”. Analizzano gli eventi globali con gli “occhiali” della propria cultura, fondata sui diritti umani e sull’universalismo etico, e partono dal presupposto che anche le altre civiltà debbano condividere e apprezzare i valori cardine delle democrazie occidentali. È un errore di prospettiva: un corto circuito culturale che impedisce di cogliere la diversa matrice valoriale e teologica delle grandi religioni monoteistiche.

Gli ebrei della diaspora, ad esempio, hanno storicamente interpretato la “non assimilazione” non come chiusura, ma come salvaguardia della propria identità: preghiere, festività, regole alimentari e comportamenti che ne mantengono viva la tradizione. Il loro dialogo con cristianesimo e islam è spesso più uno strumento di presenza sociale e politica che una reale ricerca di confronto teologico. In molti casi, non conoscono in profondità le sfumature del cristianesimo (nelle sue componenti cattolica, protestante ed evangelica) o dell’islam, quasi che parlarne apertamente sia imbarazzante.

Dall’altro lato, i cattolici portano con sé l’eredità teologica della teoria della sostituzione, secondo la quale la Chiesa avrebbe preso il posto di Israele nel piano divino: una visione che, di fatto, ha generato nel tempo un atteggiamento di imbarazzo – se non di ostilità – nei confronti dello Stato d’Israele. I protestanti, pur non essendo anti-israeliani, tendono perlopiù a collocarsi su posizioni politiche progressiste, mostrando una certa reticenza a esprimere un sostegno esplicito. Solo gli evangelici, per motivi teologici, riconoscono apertamente il ruolo spirituale di Israele e il suo diritto alla terra, convinti che nel disegno divino esso giochi un ruolo essenziale.

E l’islam? Qui si incontra il silenzio.
Nonostante le numerose occasioni mediatiche, raramente gli esponenti musulmani denunciano pubblicamente gli atti di terrorismo o di violenza compiuti in nome della loro fede. In televisione, ripetono che “l’islam è una religione di pace”, prendendo le distanze dai violenti senza mai affrontare apertamente la questione teologica o politica che giustifica certi comportamenti. Come in altri movimenti ideologici del passato, si tende a separare l’atto violento dal credo, classificandolo come “caso isolato”.
Un dialogo fondato su tali premesse non è un dialogo, ma una fonte di confusione.

Il dialogo che non serve

Il dialogo interreligioso tra le grandi fedi monoteistiche, a ben vedere, non esiste — non per volontà ostile, ma perché le premesse stesse lo rendono inutile o impossibile.

L’ebraismo non ha bisogno di dialogare per affermare la propria verità: non cerca conversioni, riconosce a ogni uomo il diritto di praticare la propria fede, purché rispetti le leggi universali che D-o ha rivelato all’umanità — il rispetto della famiglia, della vita, degli animali e della natura. Il suo compito non è convertire, ma testimoniare l’unicità divina nel mondo.

Il cristianesimo, al contrario, ha una missione dichiaratamente universale: proclamare la salvezza in Gesù Cristo e invitare l’uomo alla conversione. È quindi per sua natura una religione del “dialogo”, inteso come annuncio. Pur avendo abbandonato da secoli l’uso della forza, conserva l’idea di un messaggio di pace da portare al mondo.

L’islam, invece, concepisce la propria missione come universale e normativa: ha l’obbligo di islamizzare i popoli, cioè di sottometterli all’autorità divina (Allah). Tale obiettivo è perseguito attraverso tre canali: la jihād (lo “sforzo” anche armato), il finanziamento della propaganda e l’espansione demografica. La strategia è chiara: la demografia è il tallone d’Achille di un’Europa secolarizzata e priva di slancio spirituale.

Ma cosa intendiamo per dialogo?

Se per “dialogo” intendiamo la capacità di ascoltare l’altro, ipotizzando che possa avere ragione, allora esso è possibile solo nel campo laico, dove le verità non sono assolute.
Nell’ambito religioso, invece, dove la verità è rivelata e non negoziabile, il dialogo in senso stretto è impossibile.
Se però intendiamo il dialogo come conoscenza reciproca — un confronto culturale per comprendere la visione del mondo dell’altro e arricchire la propria — allora esso può essere fecondo, soprattutto tra ebraismo e cristianesimo, che condividono testi sacri (Torah e Bibbia) e una comune matrice etica: quella giudeo-cristiana che ha plasmato la civiltà occidentale.

Diverso è il caso dell’islam, i cui testi fondamentali, Corano e Sunna, esprimono valori non solo differenti, ma spesso in contrasto con quelli occidentali.
Un esempio emblematico riguarda l’etica della verità:

  • Nella Torah (Esodo 20:16): “Non dire falsa testimonianza contro il tuo prossimo.”
  • In Paolo (Efesini 4:25): “Bandita la menzogna, ciascuno dica la verità al suo prossimo.”
  • Nel hadith del Profeta Muhammad: “La menzogna non è lecita se non in tre casi: in guerra, per riconciliare le persone e tra un uomo e sua moglie.”

Per ebrei e cristiani la menzogna è sempre un peccato; per l’islam può essere ammessa in certe circostanze. Da qui nasce l’ambiguità che vediamo nei media, quando imam o portavoce islamici negano la connessione tra violenza e fede, o minimizzano la condizione femminile nel mondo musulmano. È una forma di dissimulazione ammessa dalle loro stesse fonti religiose.

Conclusione: la necessità della lucidità

Insistere sul “dialogo interreligioso” come strumento politico è un grave errore.
Così facendo, inganniamo noi stessi, illudiamo le future generazioni e, soprattutto, diamo ai nostri leader politici l’idea che un dialogo paritario tra religioni sia possibile.
Ma non lo è, almeno non nei termini in cui viene proposto oggi.

Serve piuttosto comprendere le strategie culturali e teologiche che muovono il mondo islamico, per affrontarle con lucidità e rispetto, ma senza ingenuità. Solo riconoscendo le differenze si può costruire un vero equilibrio tra le civiltà.

 

domenica 12 ottobre 2025

Israele, Palestina e diritto internazionale: tra legittimità, religione e storia


Il diritto internazionale trova le sue radici nei trattati e nelle convenzioni stipulate tra Stati sovrani – bilaterali o multilaterali – o tra organizzazioni internazionali.

A questi si aggiungono le consuetudini internazionali, che, pur non essendo scritte, sono considerate vincolanti come i trattati, e i principi generali del diritto, derivati dai sistemi giuridici nazionali.
Completano il quadro le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia, del Tribunale per il Diritto del Mare e le risoluzioni delle Nazioni Unite, che, se considerate parte integrante del diritto internazionale, assumono un valore normativo e politico rilevante.

Le origini legali e politiche dello Stato di Israele

In questa prospettiva, la Risoluzione 181 (II) dell’Assemblea Generale dell’ONU, approvata il 29 novembre 1947, rappresenta la premessa giuridica per la fondazione dello Stato di Israele.
La risoluzione prevedeva la spartizione della Palestina mandataria in due Stati indipendenti — uno ebraico e uno arabo — con Gerusalemme posta sotto amministrazione internazionale.

Il 14 maggio 1948, David Ben Gurion, capo dell’Agenzia Ebraica, proclamò ufficialmente la nascita dello Stato di Israele a Tel Aviv, poche ore prima della fine del mandato britannico.
Il giorno seguente, il 15 maggio 1948, gli eserciti di Egitto, Siria, Giordania, Libano e Iraq attaccarono il nuovo Stato, dando inizio alla prima guerra arabo-israeliana. Israele respinse l’aggressione e conquistò territori oltre i confini previsti dal piano ONU.

Il rifiuto arabo del piano di spartizione ebbe conseguenze profonde:
gli stessi Stati arabi che dichiararono guerra a Israele rifiutarono di fondare uno Stato palestinese, lasciando così un vuoto politico. I territori occupati da Israele dopo la guerra del 1948 non appartenevano a un’entità sovrana palestinese, ma erano ex territori del mandato britannico, non rivendicati formalmente dagli Stati arabi. Israele, quindi, si trovò ad amministrare territori privi di sovranità riconosciuta.

Una presenza ebraica ininterrotta in Terra d’Israele

Spesso si dimentica che gli ebrei non “ritornarono” semplicemente in Palestina nel Novecento, ma non se ne erano mai del tutto andati.
Dopo la distruzione del Secondo Tempio (70 d.C.) e la rivolta di Bar Kokhba (132–135 d.C.), una parte della popolazione ebraica continuò a vivere nella regione, soprattutto in Galilea, Gerusalemme, Hebron e Safed.

Nei secoli successivi — sotto domini bizantino, arabo e ottomano — le comunità ebraiche mantennero una presenza stabile e riconosciuta, con centri religiosi, scuole rabbiniche e attività economiche.
Durante il periodo ottomano (1517–1917), gli ebrei erano presenti nelle cosiddette “quattro città sante” dell’ebraismo: Gerusalemme, Hebron, Safed e Tiberiade.

Quando nel 1917 la Palestina passò sotto Mandato britannico, vivevano nel territorio circa 60–80.000 ebrei, molti dei quali discendenti di famiglie autoctone presenti da secoli.
Le successive ondate migratorie (aliyot) provenienti dall’Europa orientale, dallo Yemen e dal Nord Africa si innestarono dunque su una continuità storica preesistente.

Per secoli, ebrei e arabi vissero fianco a fianco, spesso in rapporti di collaborazione commerciale e culturale.
La contrapposizione etnica e politica emerse solo in epoca moderna, con la nascita del sionismo politico e del nazionalismo arabo, due ideologie parallele ma contrapposte che trasformarono un’antica convivenza in un conflitto identitario.

Dalla nascita di Israele alla questione palestinese

Solo quarant’anni dopo la fondazione di Israele, il 15 novembre 1988, durante una riunione ad Algeri, il Consiglio Nazionale Palestinese proclamò simbolicamente la nascita dello Stato di Palestina.
Fu un atto politico e simbolico, non sostenuto da un controllo territoriale reale: un’espressione di autodeterminazione del popolo palestinese, che in larga parte era composto da profughi provenienti da Egitto e Giordania.
La proclamazione richiamava i confini del mandato britannico e il piano ONU del 1947, che prevedeva due Stati, ma senza che questi fossero mai realmente nati.

Tra il 1948 e il 1988, la regione fu scossa da quattro guerre principali — la Crisi di Suez (1956), la Guerra dei Sei Giorni (1967), la Guerra del Kippur (1973) e l’invasione del Libano (1982) — tutte originate da iniziative militari arabe.

Nel frattempo, la Carta delle Nazioni Unite (1945) sanciva, all’articolo 2, paragrafo 4, che gli Stati devono astenersi dall’uso della forza contro l’integrità territoriale di altri Stati.
Ma questo principio era inapplicabile alla Palestina: uno Stato palestinese non esisteva, e la sua mancata esistenza era il risultato diretto del rifiuto arabo del 1947.

Tra il 1948 e il 1974 si registrarono 19 attentati terroristici attribuiti a gruppi palestinesi.
L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), nata nel 1964, ottenne nel 1974 il riconoscimento da parte dell’ONU come “unico legittimo rappresentante del popolo palestinese”.

La questione dello status dei territori e il dibattito sulla legittimità

Alla luce di queste premesse, la narrazione secondo cui “Israele occupa la Palestina” risulta giuridicamente imprecisa.
Israele amministra territori contesi, non appartenenti a uno Stato sovrano.
Secondo la Convenzione di Montevideo del 1933, per essere considerato Stato, un’entità deve possedere quattro elementi: popolazione stabile, territorio definito, governo effettivo e capacità di relazioni internazionali.
La Palestina, in assenza di un effettivo controllo territoriale e di una sovranità riconosciuta, non soddisfa pienamente questi criteri.

La posizione del mondo arabo e la questione di Gerusalemme

Dopo la proclamazione di Israele nel 1948, la Lega Araba ne rifiutò il riconoscimento, considerandolo una “creazione illegittima sul territorio arabo”.
Solo nel 1979, l’Egitto, membro fondatore, firmò con Israele il Trattato di pace di Camp David, primo passo verso una normalizzazione diplomatica.
Negli anni successivi, anche altri Paesi arabi — Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan — hanno stabilito relazioni ufficiali con Israele attraverso gli Accordi di Abramo (2020).
Tuttavia, la Lega Araba nel suo insieme continua a non riconoscere formalmente Israele, condizionando ogni riconoscimento alla creazione di uno Stato palestinese sovrano.

Alla base di questo rifiuto resta una convinzione radicata: la nascita di Israele sarebbe stata imposta dalle potenze occidentali dopo l’Olocausto, senza il consenso delle popolazioni arabe locali, che all’epoca costituivano la maggioranza.

Il nodo religioso: Gerusalemme contesa

Il conflitto israelo-palestinese non è solo politico, ma profondamente religioso e simbolico.
Per i musulmani, Gerusalemme Est è la capitale ideale del futuro Stato palestinese e la terza città santa dell’Islam.
Per gli ebrei, invece, Gerusalemme (Yerushalayim) è la città sacra per eccellenza, menzionata oltre 600 volte nella Bibbia ebraica:
la città di Davide, sede del Primo Tempio di Salomone, e luogo del sacrificio di Isacco.
Per la tradizione ebraica, Gerusalemme è il punto d’incontro tra Dio e il popolo d’Israele, la dimora della presenza divina (Shekhinah) e il simbolo eterno del legame con la propria terra.

Conclusione: il conflitto che non si estingue

La nascita di un “popolo palestinese” come entità politica moderna ha avuto anche la funzione di rafforzare la rivendicazione araba sull’intero territorio della Palestina storica, secondo lo slogan “dal fiume al mare”.
Da qui, la formula diplomatica “due popoli, due Stati” appare più come un ideale occidentale che come una soluzione realistica, poiché ignora le profonde radici religiose e culturali del conflitto.

Le tregue e gli accordi temporanei — come la liberazione di ostaggi o i cessate il fuoco — non rappresentano una pace duratura, ma solo pause tattiche in un conflitto che, per una parte del mondo arabo e islamico, può dirsi concluso solo con il pieno controllo islamico della Palestina.


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