Le
leadership occidentali, laiche o di matrice cristiana, appaiono oggi prive di
una reale consapevolezza della cosiddetta “questione islamica”. Analizzano gli
eventi globali con gli “occhiali” della propria cultura, fondata sui diritti
umani e sull’universalismo etico, e partono dal presupposto che anche le altre
civiltà debbano condividere e apprezzare i valori cardine delle democrazie
occidentali. È un errore di prospettiva: un corto circuito culturale che
impedisce di cogliere la diversa matrice valoriale e teologica delle grandi
religioni monoteistiche.
Gli ebrei
della diaspora, ad esempio, hanno storicamente interpretato la “non
assimilazione” non come chiusura, ma come salvaguardia della propria identità:
preghiere, festività, regole alimentari e comportamenti che ne mantengono viva
la tradizione. Il loro dialogo con cristianesimo e islam è spesso più uno
strumento di presenza sociale e politica che una reale ricerca di confronto
teologico. In molti casi, non conoscono in profondità le sfumature del
cristianesimo (nelle sue componenti cattolica, protestante ed evangelica) o
dell’islam, quasi che parlarne apertamente sia imbarazzante.
Dall’altro
lato, i cattolici portano con sé l’eredità teologica della teoria della
sostituzione, secondo la quale la Chiesa avrebbe preso il posto di Israele
nel piano divino: una visione che, di fatto, ha generato nel tempo un
atteggiamento di imbarazzo – se non di ostilità – nei confronti dello Stato
d’Israele. I protestanti, pur non essendo anti-israeliani, tendono perlopiù a
collocarsi su posizioni politiche progressiste, mostrando una certa reticenza a
esprimere un sostegno esplicito. Solo gli evangelici, per motivi teologici,
riconoscono apertamente il ruolo spirituale di Israele e il suo diritto alla
terra, convinti che nel disegno divino esso giochi un ruolo essenziale.
E l’islam?
Qui si incontra il silenzio.
Nonostante le numerose occasioni mediatiche, raramente gli esponenti musulmani
denunciano pubblicamente gli atti di terrorismo o di violenza compiuti in nome
della loro fede. In televisione, ripetono che “l’islam è una religione di
pace”, prendendo le distanze dai violenti senza mai affrontare apertamente la
questione teologica o politica che giustifica certi comportamenti. Come in
altri movimenti ideologici del passato, si tende a separare l’atto violento dal
credo, classificandolo come “caso isolato”.
Un dialogo fondato su tali premesse non è un dialogo, ma una fonte di
confusione.
Il dialogo che non serve
Il dialogo
interreligioso tra le grandi fedi monoteistiche, a ben vedere, non esiste — non
per volontà ostile, ma perché le premesse stesse lo rendono inutile o
impossibile.
L’ebraismo
non ha bisogno di dialogare per affermare la propria verità: non cerca
conversioni, riconosce a ogni uomo il diritto di praticare la propria fede,
purché rispetti le leggi universali che D-o ha rivelato all’umanità — il
rispetto della famiglia, della vita, degli animali e della natura. Il suo
compito non è convertire, ma testimoniare l’unicità divina nel mondo.
Il
cristianesimo, al contrario, ha una missione dichiaratamente universale:
proclamare la salvezza in Gesù Cristo e invitare l’uomo alla conversione. È
quindi per sua natura una religione del “dialogo”, inteso come annuncio. Pur
avendo abbandonato da secoli l’uso della forza, conserva l’idea di un messaggio
di pace da portare al mondo.
L’islam,
invece, concepisce la propria missione come universale e normativa: ha
l’obbligo di islamizzare i popoli, cioè di sottometterli all’autorità
divina (Allah). Tale obiettivo è perseguito attraverso tre canali: la jihād
(lo “sforzo” anche armato), il finanziamento della propaganda e l’espansione
demografica. La strategia è chiara: la demografia è il tallone d’Achille di
un’Europa secolarizzata e priva di slancio spirituale.
Ma cosa intendiamo per dialogo?
Se per
“dialogo” intendiamo la capacità di ascoltare l’altro, ipotizzando che possa
avere ragione, allora esso è possibile solo nel campo laico, dove le verità non
sono assolute.
Nell’ambito religioso, invece, dove la verità è rivelata e non negoziabile, il
dialogo in senso stretto è impossibile.
Se però intendiamo il dialogo come conoscenza reciproca — un confronto
culturale per comprendere la visione del mondo dell’altro e arricchire la
propria — allora esso può essere fecondo, soprattutto tra ebraismo e
cristianesimo, che condividono testi sacri (Torah e Bibbia) e una comune
matrice etica: quella giudeo-cristiana che ha plasmato la civiltà occidentale.
Diverso è il
caso dell’islam, i cui testi fondamentali, Corano e Sunna, esprimono valori non
solo differenti, ma spesso in contrasto con quelli occidentali.
Un esempio emblematico riguarda l’etica della verità:
- Nella Torah (Esodo 20:16): “Non dire falsa testimonianza
contro il tuo prossimo.”
- In Paolo (Efesini 4:25): “Bandita la menzogna,
ciascuno dica la verità al suo prossimo.”
- Nel hadith del Profeta Muhammad: “La menzogna non è lecita se
non in tre casi: in guerra, per riconciliare le persone e tra un uomo e
sua moglie.”
Per ebrei e
cristiani la menzogna è sempre un peccato; per l’islam può essere ammessa in
certe circostanze. Da qui nasce l’ambiguità che vediamo nei media, quando imam
o portavoce islamici negano la connessione tra violenza e fede, o minimizzano
la condizione femminile nel mondo musulmano. È una forma di dissimulazione
ammessa dalle loro stesse fonti religiose.
Conclusione: la necessità della lucidità
Insistere
sul “dialogo interreligioso” come strumento politico è un grave errore.
Così facendo, inganniamo noi stessi, illudiamo le future generazioni e,
soprattutto, diamo ai nostri leader politici l’idea che un dialogo paritario
tra religioni sia possibile.
Ma non lo è, almeno non nei termini in cui viene proposto oggi.
Serve
piuttosto comprendere le strategie culturali e teologiche che muovono il
mondo islamico, per affrontarle con lucidità e rispetto, ma senza ingenuità.
Solo riconoscendo le differenze si può costruire un vero equilibrio tra le
civiltà.
Ottimo, essenziale e completo, concordo con ogni parola.
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