domenica 4 maggio 2025

Il riconoscimento dello Stato che non esiste: la Palestina / The Recognition of a State That Doesn't Exist: Palestine

 


 
File:Flag of Italy.svg

Riconoscere uno Stato che non c’è: la scelta ideologica (e pericolosa) di Spagna, Irlanda e Norvegia

Spagna, Irlanda e Norvegia dichiarano di voler riconoscere lo Stato di Palestina. Un gesto presentato come “storico”, ma che sta già dividendo l’Europa e suscitando una reazione furiosa da parte di Israele, che ha richiamato immediatamente i suoi ambasciatori.

Premiano il terrorismo”, ha commentato senza giri di parole il governo israeliano. E il contesto non lascia spazio a equivoci: a poco più di sette mesi dal massacro del 7 ottobre, quando Hamas ha compiuto il peggior attacco contro civili ebrei dai tempi della Shoah, tre Paesi europei scelgono di riconoscere uno Stato che, nei fatti, è frammentato, instabile, governato in parte da un gruppo armato jihadista e non in grado – né disposto – a riconoscere Israele.

Riconoscimento o resa?

Sulla carta, oltre 140 Paesi nel mondo riconoscono lo Stato di Palestina, ma si tratta per lo più di atti simbolici, privi di conseguenze pratiche. Non esiste un confine definito, né una capitale condivisa, né un governo unitario. La Striscia di Gaza è controllata da Hamas, un’organizzazione che rifiuta il diritto di Israele a esistere, e che viene considerata terrorista da Unione Europea e Stati Uniti.

Il nodo politico di fondo è chiaro: si sta riconoscendo uno Stato che non esiste davvero, e che nella sua parte più attiva, violenta e organizzata, nega esplicitamente ogni possibilità di coesistenza con Israele. Paradossalmente, nessuno dei principali Paesi arabi ha mai pienamente riconosciuto lo Stato ebraico; neppure l’Autorità Nazionale Palestinese ha mai rilasciato un atto formale e inequivocabile in tal senso.

E allora perché farlo oggi, e proprio in Europa?

La verità dietro la retorica

La risposta, per molti osservatori, è meno idealista di quanto i governi di Madrid, Dublino e Oslo vogliano far credere. La loro è una mossa politica dettata più da pressioni interne che da un’autentica strategia di pace. In particolare, la crescente presenza e pressione delle comunità musulmane nei loro territori – spesso radicalizzate, mobilitate sui social e attive in piazza – ha creato un clima politico esplosivo, in cui la sinistra di governo teme la perdita del consenso o, peggio, la destabilizzazione sociale.

Insomma, si legittima uno “Stato” fantasma sotto la spinta di minacce interne, ma senza esigere nulla in cambio da chi, quel riconoscimento reciproco, lo nega da sempre.

È il cortocircuito di un’ideologia che si ammanta di pace ma cede di fatto al ricatto della violenza. Il gesto diplomatico assume così un sapore di resa, non di coraggio. Si accontenta la piazza islamista, ma si calpesta il principio base di ogni processo di pace: il riconoscimento reciproco.

L’Europa che si divide… e si indebolisce

Il rischio, ora, è duplice. Sul piano internazionale, si rompe l’unità europea, creando una frattura tra chi sostiene il negoziato bilaterale e chi cede all’unilateralismo. Sul piano interno, si crea un precedente pericoloso: dimostrare che le pressioni di piazza, anche se ideologicamente aggressive o antidemocratiche, possono piegare la politica estera di un Paese.

Intanto, Israele rimane isolato, accusato di genocidio proprio mentre piange le vittime del 7 ottobre e combatte un nemico che si nasconde dietro i civili. La narrazione si ribalta. La vittima diventa carnefice. E lo Stato ebraico si trova ancora una volta a dover giustificare il proprio diritto a esistere.

Conclusione

Spagna, Irlanda e Norvegia non hanno riconosciuto lo Stato di Palestina per spirito di giustizia o per amore della pace. Hanno ceduto alla paura, alle pressioni demografiche, all’ideologia e al calcolo elettorale. Hanno premiato chi non riconosce Israele e hanno ignorato che nessuna pace può nascere senza reciprocità.

In definitiva, questa non è una vittoria della diplomazia. È un colpo inferto al principio stesso di coesistenza. E rischia di aprire la strada a nuovi ricatti, nuove violenze e nuove illusioni.

 Flag of the United Kingdom

 Recognizing a State That Doesn’t Exist: The Ideological (and Dangerous) Choice of Spain, Ireland, and Norway

Spain, Ireland, and Norway have declared their intention to recognize the State of Palestine. A gesture presented as “historic,” but one that is already dividing Europe and provoking a furious reaction from Israel, which immediately recalled its ambassadors.

“They are rewarding terrorism,” said the Israeli government bluntly. And the context leaves little room for doubt: just over seven months after the October 7 massacre—when Hamas carried out the worst attack on Jewish civilians since the Holocaust—three European countries have chosen to recognize a state that, in reality, is fragmented, unstable, partly governed by a jihadist armed group, and neither capable nor willing to recognize Israel.
Recognition or Surrender?

On paper, over 140 countries worldwide recognize the State of Palestine, but these are mostly symbolic gestures with no practical consequences. There are no defined borders, no agreed capital, and no unified government. The Gaza Strip is controlled by Hamas, an organization that denies Israel’s right to exist and is considered a terrorist group by both the European Union and the United States.

The core political issue is clear: what is being recognized is a state that doesn’t truly exist and whose most active, violent, and organized faction explicitly denies any possibility of coexistence with Israel. Paradoxically, none of the major Arab countries has ever fully recognized the Jewish state; not even the Palestinian National Authority has issued a formal and unequivocal act to that effect.

So why do it now—and why in Europe?
The Truth Behind the Rhetoric

According to many observers, the answer is less idealistic than the governments of Madrid, Dublin, and Oslo would have us believe. Their move is a political calculation driven more by internal pressures than by a genuine peace strategy. In particular, the growing presence and pressure of Muslim communities in their territories—often radicalized, active on social media, and mobilized in the streets—has created a politically explosive climate. In this context, the governing left fears losing public support or, worse, facing social destabilization.

In short, a ghost “state” is being legitimized under internal threats, without demanding anything in return from those who have always denied the principle of mutual recognition.

It’s the short circuit of an ideology that wraps itself in the rhetoric of peace while ultimately yielding to the blackmail of violence. The diplomatic gesture ends up resembling surrender, not courage. It appeases the Islamist street, while trampling on the basic premise of any peace process: reciprocal recognition.
A Divided—and Weakened—Europe

The risk now is twofold. On the international level, Europe’s unity is broken, with a rift opening between those who support bilateral negotiations and those who give in to unilateralism. Domestically, it sets a dangerous precedent: showing that street pressure—even when ideologically extreme or anti-democratic—can bend a country’s foreign policy.

Meanwhile, Israel remains isolated, accused of genocide even as it mourns the victims of October 7 and fights an enemy that hides behind civilians. The narrative is flipped. The victim becomes the perpetrator. And the Jewish state once again finds itself having to justify its right to exist.
Conclusion

Spain, Ireland, and Norway did not recognize the State of Palestine out of a sense of justice or a love for peace. They gave in to fear, demographic pressure, ideology, and electoral calculation. They rewarded those who do not recognize Israel and ignored the fact that no peace can emerge without reciprocity.

In the end, this is not a victory for diplomacy. It is a blow to the very principle of coexistence. And it risks paving the way for new blackmail, new violence, and new illusions.

venerdì 2 maggio 2025

L'Islam e l'occidente

 


Islam e Occidente: convivenza, scontro o conquista? Dietro la retorica, la strategia dell’islamizzazione

Negli ultimi decenni, il rapporto tra mondo islamico e Occidente è tornato prepotentemente al centro del dibattito geopolitico. Non è solo una questione di immigrazione o terrorismo: per molti analisti, si sta assistendo a una strategia strutturata e multilivello di islamizzazione, cioè di diffusione intenzionale della religione islamica e dei suoi codici giuridici, sociali e culturali all’interno delle società non islamiche. Il termine, spesso usato in modo polemico o allarmistico, merita invece un’analisi lucida e documentata, lontana sia dalla paranoia complottista che dal buonismo disinformato.

Dal dialogo allo scontro culturale

L’Islam non è solo una religione: è un sistema giuridico, sociale, identitario. Non fa distinzione netta tra sfera pubblica e privata, tra diritto divino e legge civile. Questa visione, profondamente diversa da quella occidentale laica e liberale, entra in tensione con i valori fondanti delle democrazie europee: libertà religiosa, diritti delle donne, pluralismo, libertà di espressione. Negli anni ‘90, intellettuali come Samuel Huntington teorizzarono lo “scontro di civiltà”, individuando nell’Islam un blocco culturale incompatibile con l’Occidente. Oggi, più che di scontro militare, si parla di “conflitto culturale sotterraneo”, combattuto con altri strumenti: demografia, educazione, pressione sociale e controllo territoriale.

Che cos’è la “strategia dell’islamizzazione”

Con “islamizzazione” si intende un processo in cui elementi religiosi e culturali islamici si radicano e si impongono progressivamente all’interno di società non islamiche, modificandone abitudini, spazi pubblici, legislazione e clima culturale. Non sempre si tratta di un progetto coordinato o centralizzato, ma in alcuni casi esiste una vera e propria strategia promossa da:

  • Stati islamici (come Arabia Saudita, Iran, Qatar) che finanziano moschee, scuole, centri culturali in Europa e negli USA;
  • Movimenti transnazionali come i Fratelli Musulmani o gruppi salafiti, che puntano a influenzare le comunità musulmane locali;
  • ONG e fondazioni religiose che operano nel nome dell’“evangelizzazione islamica” (dawa) nei paesi occidentali.

Il meccanismo non è sempre violento, anzi: la maggior parte dell’islamizzazione avviene in modo soft, attraverso la cultura, l’istruzione, la politica locale e il welfare parallelo.

Esempi concreti in Europa

  • Moschee finanziate da regimi teocratici, spesso con imam formati all’estero che predicano visioni incompatibili con i valori democratici.
  • Zone urbane a maggioranza musulmana dove si applicano, di fatto, regole comunitarie più rigide della legislazione nazionale (divieti su alcol, segregazione di genere, polizia religiosa informale).
  • Pressioni politiche per introdurre normative compatibili con la sharia, come il riconoscimento del diritto islamico nei casi di famiglia o la richiesta di spazi separati in ambito scolastico e sportivo.
  • Auto-censura culturale in nome della tolleranza: casi editoriali, teatrali o scolastici in cui si evitano contenuti critici verso l’Islam per paura di ritorsioni.

Le due facce dell’integrazione

È fondamentale distinguere tra la maggioranza silenziosa dei musulmani occidentali, che cerca una convivenza pacifica e dignitosa, e le minoranze attive e organizzate che usano le libertà occidentali per promuovere una visione chiusa e identitaria dell’Islam. Questa dinamica è stata definita da alcuni sociologi come “paradosso delle società aperte”: in nome del pluralismo, si tollerano anche forze che puntano a minarlo dall’interno.

Parlare di islamizzazione non significa attaccare l’Islam in quanto religione, ma interrogarsi su quali modelli culturali, giuridici e sociali siano compatibili con la democrazia liberale occidentale. Significa chiedersi se l’integrazione stia avvenendo su basi condivise o se si stia costruendo, silenziosamente, una società parallela. In un’epoca in cui l’informazione è spesso filtrata da ideologie, comprendere questi fenomeni con spirito critico, senza cedere né alla paura né al conformismo, è un dovere giornalistico e civico.

Parashot Tazria e Metzorà

 


Quando la pelle parla per l’anima: cosa ci insegnano Tazria e Metzorà sul linguaggio, la guarigione e lo sguardo

Nel cuore del Levitico, i capitoli di Tazria e Metzorà parlano di malattie della pelle, di impurità e di rituali di purificazione. A prima vista, sembrerebbero pagine antiche e remote, apparentemente fuori tempo rispetto alla sensibilità moderna. Eppure, lette con attenzione, queste parashot ci offrono una delle riflessioni più profonde sull’essere umano, sul suo rapporto con la comunità e su come il corpo possa farsi specchio dell’anima.

Perché nella Torah, la tzaraat – spesso tradotta frettolosamente come “lebbra” – non è una malattia infettiva, ma un segnale spirituale, un messaggio che affiora sulla pelle per dirci che qualcosa, dentro, si è incrinato.

Il corpo non mente: l’ombra della parola

La tradizione ebraica ci insegna che la tzaraat non nasce da cause fisiche, ma morali. Il Talmud, con la sua sapienza millenaria, collega questa condizione a comportamenti distruttivi come la maldicenza, l’arroganza, l’invidia o lo sguardo negativo verso gli altri. In altre parole: quando le parole fanno male, il corpo lo mostra.

Ed è qui che la Torah ci sorprende, anticipando di millenni il principio fondamentale della medicina olistica: la malattia è anche un messaggio, un’occasione per fermarsi, ascoltarsi e ricostruire l’equilibrio tra corpo, emozioni e spirito.

L’isolamento che cura

Il metzorà – la persona colpita dalla tzaraat – veniva temporaneamente allontanato dall’accampamento. Non per punizione, ma per protezione. Per permettergli di fare spazio, di entrare in ascolto, di compiere un percorso interiore. Un isolamento che, nella sua solitudine, non è assenza, ma presenza profonda: tempo per la consapevolezza, per rivedere le parole dette, i pensieri coltivati, i giudizi espressi.

Anche qui, la Torah ci parla con una modernità disarmante: non si guarisce solo con i farmaci o le tecniche, ma con l’introspezione, il silenzio, il tempo giusto per ciascuno.

Il sacerdote – il Cohèn – non è un medico nel senso tecnico. È una guida spirituale, che osserva non solo la pelle, ma la persona. Prima di dichiarare l’impurità, aspetta. Valuta se è il momento adatto. Perché non si guarisce quando lo dice un protocollo, ma quando l’anima è pronta.

Sguardo che ferisce, sguardo che guarisce

Un insegnamento potente emerge dal confronto tra due parole: nèga (piaga) e oneg (delizia). In ebraico hanno le stesse lettere: נ, ג, ע. Cambia solo l’ordine. E cambia il significato. A fare la differenza è l’ayin, la “occhio”. Lo sguardo, diremmo oggi.

Questo piccolo dettaglio linguistico ci insegna qualcosa di universale: la realtà non è solo ciò che accade, ma come la vediamo. Una difficoltà può diventare una rovina o una rinascita. Una parola può dividere o unire. Un giudizio può ferire o illuminare. Sta a noi scegliere lo sguardo da cui partire.

Dalla parola alla responsabilità

La Torah è molto attenta anche al linguaggio. Non permette neppure al sacerdote di dire con certezza “è una piaga”, ma solo “mi sembra una piaga”. È un esercizio di delicatezza, di sospensione del giudizio. Un invito alla prudenza nel parlare degli altri.

Il Talmud spiega che le parole hanno un potere immenso, non solo etico ma quasi “energetico”: chi calunnia, dicono i Maestri, perde le sue buone azioni e si carica dei peccati di chi ha denigrato. Non è solo questione morale. È una legge spirituale di causa-effetto.

La guarigione è un cammino

Il percorso del metzorà, una volta guarito, è dettagliato: immersione, offerte, unzioni. Il corpo viene riconsacrato, pezzo per pezzo: orecchio, mano, piede. Come a dire: ascolta meglio, agisci con consapevolezza, cammina con direzione.

Uno degli atti più simbolici è quello dell’uccello lasciato libero: rappresenta la parola che ritorna pura. Non più arma, ma canto. Parlare può ferire, ma può anche liberare. Il rito insegna a usare la voce per benedire, non per distruggere.

Shabbat, l’antidoto settimanale

In questo contesto, lo Shabbat appare come il contrario del nèga: è oneg, piacere sacro. Il giorno in cui si torna a casa, nella comunità, in se stessi. È la medicina settimanale per non cadere nel veleno delle parole inutili, nella fatica dell’invidia, nel logoramento del giudizio.

Un messaggio attuale

Tazria e Metzorà sembrano parlare di un mondo antico. E invece, ci raccontano il nostro presente. In un’epoca in cui si parla troppo, si giudica velocemente e si dimentica l’ascolto, ci ricordano che ogni parola è un atto medico: può curare o può infettare.

E ci insegnano che la guarigione vera nasce dallo sguardo, da quella capacità di vedere oltre la macchia, oltre il sintomo, per cogliere ciò che chiede di essere trasformato.

Guarire, in fondo, significa questo: mettere l’occhio giusto nel posto giusto. Cambiare lo sguardo per cambiare la vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


giovedì 24 aprile 2025

L’antico veleno dell’antisemitismo

L’antico veleno dell’antisemitismo e le nuove forme della propaganda: dalla Chiesa medievale ad Al Jazeera, passando per Hamas e il Vaticano

Accusati di rapire bambini cristiani e berne il sangue: è uno dei più vecchi e infondati miti antisemiti della storia europea. Una menzogna, quella dell’omicidio rituale, costruita nel Medioevo dalla propaganda religiosa cattolica per giustificare pogrom, espulsioni e ghetti. Un meccanismo di disumanizzazione che, con nuove maschere, continua a riprodursi nei secoli: dal Terzo Reich alla propaganda di Hamas, fino a certe narrazioni contemporanee alimentate da media apparentemente neutrali, come Al Jazeera, e da linguaggi ambigui provenienti da istituzioni religiose internazionali, Vaticano incluso.

La continuità dell’odio: il modello Goebbels

Nel XX secolo, il nazismo portò l’antisemitismo all’estremo: Joseph Goebbels non inventò gli stereotipi contro gli ebrei, ma seppe industrializzarli. Il suo apparato mediatico trasformò il pregiudizio in ideologia di Stato, legittimando con il consenso popolare la “Soluzione finale”. Gli ebrei, presentati come parassiti, complottisti, corrotti, diventarono bersaglio di una delle macchine di sterminio più perfette della storia moderna. La parola d’ordine era semplice: ripetere la menzogna finché non diventa verità.

Hamas e la narrazione dell’odio

La strategia comunicativa di Hamas ricalca molte di queste tecniche. L'organizzazione palestinese, ritenuta terroristica da Unione Europea, Stati Uniti e Israele, diffonde una narrativa che dipinge Israele come entità assoluta del male, legittimando così la violenza contro civili. La demonizzazione non colpisce solo lo Stato, ma tutto il popolo ebraico, in un gioco pericoloso in cui la distinzione tra conflitto geopolitico e odio etnico si annulla. La cultura della martirizzazione, la glorificazione della violenza e l’uso dei bambini come strumenti simbolici sono elementi centrali di questa macchina propagandistica.

Qatar, Hamas e l’ambigua imparzialità di Al Jazeera

In questo quadro, Al Jazeera rappresenta un caso emblematico. Considerata da molti in Occidente come fonte autorevole di informazione internazionale, la rete con sede a Doha è finanziata direttamente dal governo del Qatar, lo stesso governo che ospita da anni i leader di Hamas. Un legame che pone interrogativi cruciali: è possibile garantire una copertura imparziale di un conflitto quando si è economicamente e politicamente legati a una delle parti in causa? È una domanda scomoda, che tocca il cuore della credibilità giornalistica. I contenuti prodotti e rilanciati da Al Jazeera in Occidente — reportage selettivi, framing emotivo e narrazioni unilaterali — sembrano più strumenti di persuasione ideologica che inchieste equilibrate. In gergo occidentale si parlerebbe di conflitto di interessi strutturale.

Il Vaticano e il peso delle parole

Ma anche la voce morale della Chiesa cattolica è finita al centro di una tempesta diplomatica e semantica. A novembre 2024, Papa Francesco ha dichiarato, nel libro La speranza non delude mai, che “secondo alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio”. Parole caute, ma che hanno fatto esplodere la reazione dell’ambasciata israeliana presso la Santa Sede: «Genocidio è stato il massacro del 7 ottobre», ha replicato duramente Tel Aviv, accusando il Pontefice di alimentare indirettamente l’isolamento diplomatico di Israele.

Il Papa ha più volte condannato l’antisemitismo e incontrato le famiglie degli ostaggi israeliani. Ma in un’epoca in cui ogni parola è amplificata e politicizzata, anche l’ambiguità lessicale può essere strumentalizzata. Il rischio è che, pur senza intenzione, il linguaggio vaticano finisca per legittimare la narrazione “genocidaria” di Hamas, fornendo copertura morale a chi non cerca la pace, ma l’eliminazione dell’altro.

Dove finisce il diritto e inizia la propaganda

La questione di Gaza è tragica e reale. Il blocco, denunciato da Oxfam come "prigione a cielo aperto", ha avuto effetti devastanti sulla popolazione palestinese. Ma le critiche alle politiche israeliane devono restare distinte dal pregiudizio etnico o religioso. Troppe volte si scivola da un’analisi politica legittima a una demonizzazione del “popolo ebraico”, spesso mascherata da attivismo umanitario o anticolonialismo.

L’antisemitismo non ha mai avuto un solo volto. Assume maschere diverse in ogni epoca: teologica, ideologica, politica, mediatica. Ma resta sempre lo stesso veleno, capace di trasformare la menzogna in verità, la legittima difesa in crimine, la vittima in carnefice.

Oggi come ieri, combatterlo significa una cosa sola: difendere la verità, anche quando è scomoda.

Parashà Sheminì

 

La Parashà Sheminì si apre con un momento di enorme importanza: l’ottavo giorno dell’inaugurazione del Mishkàn, il Tabernacolo. Dopo sette giorni di preparativi, ora è il momento in cui la presenza divina si manifesta apertamente. Aronne offre i primi sacrifici come sommo sacerdote, eseguendo i rituali con precisione. Alla fine del processo, un fuoco divino scende dal cielo e consuma le offerte: un chiaro segno che Dio ha accettato il culto d’Israele (Lev. 9:24).

Ma l’atmosfera si spezza all’improvviso. I figli di Aronne, Nadav e Avihù, offrono un “fuoco estraneo”, un’iniziativa personale e non autorizzata. Per questo motivo, un altro fuoco li consuma, ed essi muoiono davanti a Dio (Lev. 10:1-2). Mosè dice ad Aronne che la santità di Dio si manifesta con rigore soprattutto tra coloro che si avvicinano a Lui. Aronne, in silenzio, accetta il verdetto.

Segue un insegnamento fondamentale per i sacerdoti: vietato entrare nel Santuario in stato di ebbrezza. Infine, il testo si conclude con le leggi della kashrut (alimentazione lecita): vengono elencati gli animali, pesci e uccelli che si possono o non si possono mangiare.

Sintesi del commento talmudico/chassidico

Otto: il numero che trascende

Il numero otto, simbolo della trascendenza, rappresenta ciò che è oltre la natura. Il settimo giorno è la perfezione naturale (Shabbat), l’ottavo è miracolo, rivelazione pura. Il messaggio: attraverso l’impegno umano (i “sette giorni”), si può accedere alla luce divina (l’“ottavo giorno”).

Nadav e Avihù: martiri della luce

Il Rebbe di Lubavitch propone una lettura rivoluzionaria: i due figli non sono semplici trasgressori, ma anime elevate consumate da un amore inarrestabile per Dio. Morirono “per un bacio divino”, desiderosi di unirsi completamente con Lui. È un'“overdose spirituale”, una passione così intensa che li ha portati oltre i limiti umani. Vari maestri (Ohev Yisrael, Shamshon di Ostropola, Rebbe di Lelov) confermano l’interpretazione mistica: morirono perché si avvicinarono troppo alla luce divina. Non fu una punizione, ma una fusione dell’anima con Dio. Come il popolo che al Sinai chiese a Mosè di parlare al posto di Dio per timore di morire per la potenza della voce divina.

Kashrut e umiltà spirituale

Le regole alimentari vengono subito dopo questo evento per ricordarci che servire Dio non è solo estasi, ma anche disciplina. Anche se una regola non è comprensibile, va accettata come parte del “giogo del Cielo” (kabalat ol), superando la logica con la fede. Si raccontano episodi (come quello del Chatam Sofer) che sottolineano l’importanza di seguire scrupolosamente le leggi alimentari. Anche chi mangia cibo proibito per errore, viene spiritualmente danneggiato. Questo tema è fortemente legato alla purezza e alla disciplina spirituale quotidiana.

Il potere del cambiamento

Il messaggio è: “non è mai troppo tardi”. Anche chi è nel “49° livello di impurità” (come gli ebrei in Egitto) può elevarsi. L’ebreo kasher è quello che sa nuotare controcorrente. C'è una costante possibilità di ricominciare, come quando ogni mattina il mondo viene “ricreato da zero”.

La Parashà Sheminì ci parla della vicinanza a Dio e del rischio della passione senza limiti, ma anche dell’importanza della disciplina, dell’umiltà e della rigenerazione quotidiana. È un testo che unisce vertigini mistiche e rigore etico, fuoco divino e cibo kasher, silenzio sacro e grida di gioia.

Nel testo di Ebrei 9, si fa un parallelo tra il culto del Mishkàn e il sacrificio di Gesù come “sommo sacerdote perfetto”. In chiave ebraica, questo è un esempio classico di appropriazione simbolica: il sistema dei sacrifici non è superato, né si concentra in una figura unica e definitiva, ma è parte di una struttura divina continua, che trova senso nella molteplicità e nella ciclicità del culto ebraico.

Il Kohen Gadol (Sommo Sacerdote), come Aronne, non agisce per sé ma come shaliach tzibbur, emissario del popolo. Non si tratta mai di una salvezza individuale o mistica, ma di un processo collettivo dove ogni persona ha il dovere di correggere se stessa.

Inoltre, l’idea che un solo sacrificio possa "sostituire" tutti gli altri è estranea al pensiero ebraico. La teshuvà (ritorno), la tefillà (preghiera) e la tzedakà (giustizia) sono strumenti quotidiani, non atti unici e definitivi. Ogni giorno è un nuovo inizio — come insegna la stessa parashà di Sheminì.

Il paragone con Nadav e Avihù

Il richiamo alla morte di Anania e Saffira in Atti 5 viene spesso visto, nel mondo cristiano, come parallelismo con Nadav e Avihù. Ma in chiave ebraica questo confronto non regge se preso alla lettera.

  • Nadav e Avihù non mentono né compiono una truffa. La loro colpa è spirituale, non morale. Hanno cercato di entrare nella santità oltre i limiti stabiliti, e sono stati consumati dalla luce divina. La loro morte è letta, da molti maestri, non come punizione, ma come un'elevazione mistica estrema (un "bacio di Dio").
  • Anania e Saffira invece mentono consapevolmente, e il loro atto è di inganno materiale e sociale. Qui si tratta di ipocrisia e falsità, che corrompono la comunità. Non è un eccesso di zelo spirituale, ma il suo contrario.

Il messaggio di Nadav e Avihù è ebraico: non basta l'intenzione o l'ardore, serve rispetto delle mitzvòt e dei confini. Non puoi bruciare la tua anima nel Nome di Dio. L’ebraismo non è mistica distruttiva, ma santificazione disciplinata del mondo.

La lezione ebraica che si ricava è profonda:

“La santità non è nell’estasi, ma nel contenimento.”
Il Kohen Gadol entra nel Santo dei Santi una volta all’anno, e solo su ordine divino e dopo purificazione rituale. La santità è tremenda e pericolosa se si accosta con leggerezza o arroganza.

In questo senso, Nadav e Avihù ci insegnano che avere fervore non basta. Anche la devozione più intensa deve essere incanalata secondo la halachà. Non esiste un "salvatore perfetto" nell’ebraismo — esiste una comunità di cohanìm, e un popolo intero chiamato ad essere “mamlechet kohanim vegoy kadosh”, un regno di sacerdoti e una nazione santa.

Dvar Torà – Sheminì: Il fuoco che consuma e quello che eleva

Questa settimana leggiamo la Parashà Sheminì, in cui assistiamo a uno dei momenti più intensi e drammatici della Torà: la morte improvvisa di Nadav e Avihù, i figli di Aronne. Il testo dice:

“E presero ciascuno il suo braciere, vi misero fuoco, vi posero sopra dell’incenso, e offrirono davanti ad Hashem un fuoco estraneo, che Egli non aveva comandato... e un fuoco uscì da Hashem e li consumò.” (Vayikrà 10:1-2)

Perché sono morti?

La tradizione rabbinica offre molte spiegazioni: erano ubriachi, non avevano consultato Mosè, non indossavano le vesti sacerdotali, erano troppo presuntuosi. Ma poi arriva l’Or HaChayim, e più tardi i maestri chassidici, a dire qualcosa di sconvolgente: Nadav e Avihù non sono morti per punizione, ma perché si sono avvicinati troppo alla Luce. Come una falena attratta dal fuoco, il loro desiderio di Dio era così bruciante da farli consumare.

Non basta la passione

In ebraico, il termine usato è "esh zarà" – “fuoco estraneo”. Anche il fuoco, simbolo della Shechinà, può diventare distruttivo se non è incanalato. Il messaggio è potente: non tutto ciò che “viene dal cuore” è accettabile davanti a Dio. L’ebraismo non ci chiede solo intenzione (kavanà), ma anche struttura, limiti, precisione.

Rashì commenta: “Hanno deciso da sé – e non da un comando divino.”
Ramban aggiunge: “Il loro peccato fu l’iniziativa non richiesta, perché anche il bene non ordinato diventa trasgressione quando altera il servizio sacro.”

Il vero servizio divino? Dentro i confini

Viviamo in un’epoca in cui si valorizza molto l’autenticità, l’emozione, il sentirsi ispirati. Ma Sheminì ci insegna che anche la spiritualità ha bisogno di una cornice. Un amore per Dio che ci allontana dal mondo e ci consuma, non è quello che Hashem desidera. Lui ci vuole presenti, sobri, attenti.

Il messaggio per oggi

In un mondo dove è facile bruciare per una causa e poi spegnersi, Sheminì ci invita a costruire una fiamma che dura. Non un incendio emotivo, ma una ner tamid, una luce costante. Il vero servizio è quello quotidiano, disciplinato, che non cerca solo il miracolo, ma lavora nella realtà.

Come dice il Talmùd (Yomà 39a):

“Colui che si santifica da sé in basso, viene santificato dall’Alto.”

Vuol dire: fai tu il primo passo, ma fallo con misura, e Dio farà il resto — ti eleverà in modi che non puoi nemmeno immaginare.

lunedì 14 aprile 2025

ANCORA SULLA QUESTIONE PALESTINESE

 


La storia degli ebrei in Terra di Israele/Palestina è lunga e complessa, con periodi di esilio e di ritorno. Tuttavia, è importante notare che, nonostante gli esili e le persecuzioni, gli ebrei hanno sempre mantenuto una presenza in Terra di Israele/Palestina.

Anche durante i periodi di esilio, gli ebrei sono rimasti legati alla loro terra d'origine e hanno continuato a vivere lì, anche se in minoranza. Questo è stato possibile grazie alla presenza di comunità ebraiche in città come Gerusalemme, Safed, Tiberiade e Hebron.
Inoltre, durante il periodo ottomano (1517-1917), gli ebrei hanno potuto tornare in Terra di Israele/Palestina e stabilirsi lì. Molti ebrei provenienti dall'Europa e dal Nord Africa sono emigrati in Palestina durante questo periodo.


D'altra parte, la presenza araba in Palestina è relativamente recente. Infatti, la maggior parte dei palestinesi odierni sono discendenti di arabi giordani e siriani che si sono trasferiti in Palestina durante il periodo ottomano e britannico (1917-1948). Prima di quel periodo, la regione era abitata da una popolazione mista di ebrei, cristiani e musulmani.
Inoltre, fino agli anni '60 del XX secolo, i palestinesi non erano considerati un popolo distinto, ma piuttosto come parte della più ampia comunità araba. La creazione di un'identità palestinese distinta è un fenomeno relativamente recente, che si è sviluppato in risposta alla creazione dello Stato di Israele e al conflitto israelo-palestinese.


Quindi, sebbene gli ebrei siano stati esiliati e perseguitati nel corso della storia, hanno sempre mantenuto una presenza in Terra di Israele/Palestina. La creazione di uno Stato ebraico in Palestina è stata una risposta legittima alla storia di persecuzione e di esilio degli ebrei, e non ha cancellato i diritti dei palestinesi, ma ha piuttosto creato una situazione complessa che richiede una soluzione negoziata e pacifica non sempre possibile.

La questione palestinese è stata imposta alla comunità internazionale mediante pochi leader che non erano neanche palestinesi, in chiave antisionista. Si deve considerare che dalla fondazione dello Stato di Israele ogni tentativo militare arabo è fallito, da cui il ricorso al terrorismo.
Se consideriamo legittimo il terrorismo palestinese come metodo di lotta per rivendicare uno Stato, allora dobbiamo considerare legittimo il terrorismo come metodo di lotta in generale.

Tuttavia, questo solleva una serie di problemi etici e morali. Il terrorismo, per definizione, coinvolge l'uso della violenza e della paura per raggiungere obiettivi politici, e spesso comporta la morte e il ferimento di innocenti.
Gli attentati palestinesi nel mondo hanno causato la morte e il ferimento di migliaia di persone, tra cui civili, donne e bambini. Alcuni esempi includono:

  • Gli attentati alle Olimpiadi di Monaco del 1972, in cui 11 atleti israeliani furono uccisi.

  • L'attentato alla sinagoga di Roma del 1982, in cui 2 persone furono uccise e 37 ferite.

  • Gli attentati suicidi a Gerusalemme e Tel Aviv negli anni '90 e 2000, in cui centinaia di persone furono uccise e ferite.

  • L'attentato alla scuola di Ma'alot del 1974, in cui 22 scolari furono uccisi.

Se consideriamo legittimo il terrorismo palestinese, allora dobbiamo anche considerare legittimo il terrorismo di altre organizzazioni, come Al-Qaeda, l'ISIS, le Brigate Rosse, l'ETA basca, ecc. Questo significherebbe che la violenza e il terrore sono accettabili come metodi di lotta politica, il che è moralmente ed eticamente inaccettabile, oltre che estremamente pericoloso.

Inoltre, è importante notare che i palestinesi negano il diritto di esistere dello Stato ebraico per ragioni religiose, in quanto considerano la Palestina come una terra sacra islamica (waqf) e ritengono che gli ebrei non abbiano il diritto di stabilirsi lì.
Il Corano contiene alcuni versetti che possono essere interpretati come una prescrizione di violenza contro gli ebrei, i cristiani e altri non musulmani, come ad esempio la sura 9, versetto 29.

Questi fattori aggiungono un'ulteriore dimensione di complessità alla questione, e sottolineano l'importanza di promuovere metodi di lotta pacifici e democratici, come la negoziazione, la diplomazia e la protesta non violenta.

Tuttavia, è doveroso osservare che parlare di "negoziato" risulta particolarmente complesso considerando il contesto religioso. In particolare, l'Islam, nella sua interpretazione più tradizionale, non prevede il riconoscimento di uno Stato non musulmano su una terra considerata sacra. Questa visione rende estremamente difficile la possibilità di un compromesso duraturo, poiché per molti non si tratta solo di una questione politica, ma di un dovere religioso.

Allo stesso modo, per gli ebrei religiosi, la Terra di Israele non è semplicemente una patria storica o politica, ma costituisce un elemento fondamentale della fede ebraica, radicato nella promessa divina fatta ad Abramo. La terra ha un valore sacro e costitutivo dell’identità religiosa e nazionale ebraica. Ignorare questa dimensione spirituale significa fraintendere la profondità del legame ebraico con la regione.

Se le diplomazie occidentali non tengono conto di questo duplice elemento religioso — da entrambe le parti — sarà impossibile trovare soluzioni stabili e durature. La questione israelo-palestinese non può essere trattata come una semplice disputa territoriale: essa tocca convinzioni profonde, identità religiose e visioni del mondo non facilmente negoziabili.

Invece di legittimare il terrorismo, dovremmo lavorare per creare un ambiente in cui i diritti e le esigenze di tutte le parti coinvolte siano rispettati e considerati. Ciò richiede un impegno sincero per la pace, la giustizia e la comprensione reciproca.

domenica 6 aprile 2025

LA CASA NEGATA: GIOVANI, FAMIGLIE E IL NUOVO GHETTO DELL’ABITARE

 


Un sogno sempre più irraggiungibile.
È questa la realtà che si presenta a migliaia di giovani coppie, studenti e famiglie monoreddito che cercano di costruirsi una vita autonoma. Trovare una casa oggi in Italia, specie nelle grandi città come Roma e Milano, è diventato un lusso riservato a pochi. Se non sei figlio di un professionista, di un imprenditore, di un politico o di un dirigente con un solido patrimonio immobiliare alle spalle, il mercato ti esclude o ti espelle.

Dati alla mano, la situazione è drammatica.
Secondo il rapporto ISTAT 2023, oltre il 40% dei giovani under 35 vive ancora nella casa dei genitori, non per scelta, ma per necessità economica. A Roma, l’affitto medio di un monolocale ha superato i 900 euro mensili, mentre a Milano si sfiorano i 1.100 euro. Per studenti universitari o neolaureati con contratti precari, accedere a un affitto regolare è un’impresa titanica.

E non basta poter pagare: ai futuri inquilini vengono richieste garanzie spropositate, come fideiussioni bancarie o genitori garanti con redditi alti, condizioni che di fatto escludono la maggior parte delle persone normali. Come se si stesse richiedendo un mutuo e non la semplice locazione di un piccolo appartamento.

Le famiglie monoreddito e le madri single sono ancora più penalizzate.
Secondo il CENSIS, 1 famiglia su 5 in Italia vive in condizioni di vulnerabilità abitativa. Il risultato? Una crescente marginalizzazione sociale. Nel frattempo, in ogni angolo delle nostre città spuntano Bed&Breakfast e affitti turistici: il numero di B&B a Roma è aumentato del 29% negli ultimi cinque anni (fonte: Confcommercio 2024), riducendo ulteriormente l’offerta di immobili destinati all’affitto residenziale.

Ma quali sono le cause di questa emergenza abitativa?
Una parte della sinistra politica tende a indicare nella “proprietà privata” la radice del problema, legittimando, di fatto, pratiche come l’occupazione abusiva delle case. Non a caso, l’Onorevole Ilaria Salis, eletta al Parlamento Europeo nonostante una pendenza penale, ha più volte sostenuto l’occupazione come strumento di rivendicazione sociale. Questo messaggio, già di per sé pericoloso, si somma all'azione di gruppi criminali organizzati, spesso composti da immigrati irregolari o comunità rom, che occupano illegalmente appartamenti pubblici e privati.

A questo si aggiunge un altro fenomeno sommerso:
Sempre più spesso, persone che hanno perso il lavoro smettono di pagare l'affitto e, protette da una normativa estremamente garantista, restano negli immobili per mesi o anni, rendendo complesso e costoso il procedimento di sfratto. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, nel 2023 ci sono stati oltre 53.000 sfratti esecutivi pendenti, ma solo il 18% è stato effettivamente eseguito.

Il quadro si complica ulteriormente quando si affrontano le occupazioni abusive. In Italia, il recupero di un immobile occupato è spesso lento e ostacolato da interpretazioni giurisprudenziali che, in nome dell’inclusione sociale, sacrificano i diritti dei proprietari.

E allora, viene naturale chiedersi: perché i proprietari oggi chiedono così tante garanzie? Perché preferiscono gli affitti brevi turistici invece di rischiare lunghi contenziosi legali? La risposta non è nella "cattiveria" del privato, ma in un sistema legislativo che penalizza chi affitta in modo regolare e tutela chi viola le regole.

La vera radice del problema è un impianto normativo sbagliato, che protegge l’illegalità e disincentiva il mercato residenziale. Leggi confuse, procedure di sfratto farraginose e una magistratura spesso imbrigliata da pregiudizi ideologici creano un ambiente tossico, in cui il diritto alla casa si trasforma in privilegio per pochi.

In questo contesto, senza sponsor politici o appoggi influenti, trovare casa diventa quasi impossibile.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: giovani costretti a restare a casa dei genitori, famiglie spezzate, studenti fuori sede in difficoltà cronica. E intanto il tessuto sociale delle nostre città si sfilaccia, mentre nessuno sembra voler cambiare davvero le regole del gioco.


Perché oggi assistiamo a un risveglio dell’antisemitismo?

Un’inchiesta sulle radici storiche, teologiche e politiche di un fenomeno che attraversa i secoli. L’antisemitismo non è una piaga recente: ...