La Parashà Sheminì si apre con un momento di enorme importanza: l’ottavo giorno dell’inaugurazione del Mishkàn, il Tabernacolo. Dopo sette giorni di preparativi, ora è il momento in cui la presenza divina si manifesta apertamente. Aronne offre i primi sacrifici come sommo sacerdote, eseguendo i rituali con precisione. Alla fine del processo, un fuoco divino scende dal cielo e consuma le offerte: un chiaro segno che Dio ha accettato il culto d’Israele (Lev. 9:24).
Ma l’atmosfera si spezza all’improvviso. I figli
di Aronne, Nadav e Avihù, offrono un “fuoco estraneo”, un’iniziativa
personale e non autorizzata. Per questo motivo, un altro fuoco li consuma,
ed essi muoiono davanti a Dio (Lev. 10:1-2). Mosè dice ad Aronne che la santità
di Dio si manifesta con rigore soprattutto tra coloro che si avvicinano a Lui.
Aronne, in silenzio, accetta il verdetto.
Segue un insegnamento fondamentale per i
sacerdoti: vietato entrare nel Santuario in stato di ebbrezza. Infine,
il testo si conclude con le leggi della kashrut (alimentazione lecita):
vengono elencati gli animali, pesci e uccelli che si possono o non si possono
mangiare.
Sintesi del commento talmudico/chassidico
Otto: il
numero che trascende
Il numero otto, simbolo della trascendenza,
rappresenta ciò che è oltre la natura. Il settimo giorno è la perfezione
naturale (Shabbat), l’ottavo è miracolo, rivelazione pura. Il messaggio:
attraverso l’impegno umano (i “sette giorni”), si può accedere alla luce divina
(l’“ottavo giorno”).
Nadav e Avihù:
martiri della luce
Il Rebbe di Lubavitch propone una lettura
rivoluzionaria: i due figli non sono semplici trasgressori, ma anime elevate
consumate da un amore inarrestabile per Dio. Morirono “per un bacio divino”,
desiderosi di unirsi completamente con Lui. È un'“overdose spirituale”, una
passione così intensa che li ha portati oltre i limiti umani. Vari maestri
(Ohev Yisrael, Shamshon di Ostropola, Rebbe di Lelov) confermano
l’interpretazione mistica: morirono perché si avvicinarono troppo alla
luce divina. Non fu una punizione, ma una fusione dell’anima con Dio. Come il
popolo che al Sinai chiese a Mosè di parlare al posto di Dio per timore di
morire per la potenza della voce divina.
Kashrut e
umiltà spirituale
Le regole alimentari vengono subito dopo questo
evento per ricordarci che servire Dio non è solo estasi, ma anche
disciplina. Anche se una regola non è comprensibile, va accettata come parte
del “giogo del Cielo” (kabalat ol), superando la logica con la fede. Si
raccontano episodi (come quello del Chatam Sofer) che sottolineano l’importanza
di seguire scrupolosamente le leggi alimentari. Anche chi mangia cibo
proibito per errore, viene spiritualmente danneggiato. Questo tema è
fortemente legato alla purezza e alla disciplina spirituale quotidiana.
Il potere del
cambiamento
Il messaggio è: “non è mai troppo tardi”.
Anche chi è nel “49° livello di impurità” (come gli ebrei in Egitto) può
elevarsi. L’ebreo kasher è quello che sa nuotare controcorrente. C'è una
costante possibilità di ricominciare, come quando ogni mattina il mondo viene
“ricreato da zero”.
La Parashà Sheminì ci parla della vicinanza a Dio e del rischio della passione senza
limiti, ma anche dell’importanza della disciplina, dell’umiltà
e della rigenerazione quotidiana. È un testo che unisce vertigini mistiche e
rigore etico, fuoco divino e cibo kasher, silenzio sacro e grida di gioia.
Nel testo di Ebrei 9, si fa un parallelo
tra il culto del Mishkàn e il sacrificio di Gesù come “sommo sacerdote
perfetto”. In chiave ebraica, questo è un esempio classico di appropriazione
simbolica: il sistema dei sacrifici non è superato, né si concentra in una
figura unica e definitiva, ma è parte di una struttura divina continua,
che trova senso nella molteplicità e nella ciclicità del culto ebraico.
Il Kohen Gadol (Sommo Sacerdote), come
Aronne, non agisce per sé ma come shaliach tzibbur, emissario del
popolo. Non si tratta mai di una salvezza individuale o mistica, ma di un processo
collettivo dove ogni persona ha il dovere di correggere se stessa.
Inoltre, l’idea che un solo sacrificio possa
"sostituire" tutti gli altri è estranea al pensiero ebraico. La teshuvà
(ritorno), la tefillà (preghiera) e la tzedakà (giustizia) sono
strumenti quotidiani, non atti unici e definitivi. Ogni giorno è un
nuovo inizio — come insegna la stessa parashà di Sheminì.
Il paragone
con Nadav e Avihù
Il richiamo alla morte di Anania e Saffira in Atti
5 viene spesso visto, nel mondo cristiano, come parallelismo con Nadav e
Avihù. Ma in chiave ebraica questo confronto non regge se preso alla
lettera.
- Nadav e
Avihù non mentono né compiono una truffa. La loro colpa è spirituale,
non morale. Hanno cercato di entrare nella santità oltre i limiti
stabiliti, e sono stati consumati dalla luce divina. La loro morte è
letta, da molti maestri, non come punizione, ma come un'elevazione
mistica estrema (un "bacio di Dio").
- Anania e
Saffira invece mentono consapevolmente, e il loro atto è di inganno
materiale e sociale. Qui si tratta di ipocrisia e falsità, che
corrompono la comunità. Non è un eccesso di zelo spirituale, ma il suo
contrario.
Il messaggio di Nadav e Avihù è ebraico: non
basta l'intenzione o l'ardore, serve rispetto delle mitzvòt e dei confini.
Non puoi bruciare la tua anima nel Nome di Dio. L’ebraismo non è mistica
distruttiva, ma santificazione disciplinata del mondo.
La lezione ebraica che si ricava è profonda:
“La santità non è nell’estasi, ma nel
contenimento.”
Il Kohen Gadol entra nel Santo dei Santi una volta all’anno, e solo su
ordine divino e dopo purificazione rituale. La santità è tremenda e
pericolosa se si accosta con leggerezza o arroganza.
In questo senso, Nadav e Avihù ci insegnano che avere
fervore non basta. Anche la devozione più intensa deve essere incanalata
secondo la halachà. Non esiste un "salvatore perfetto"
nell’ebraismo — esiste una comunità di cohanìm, e un popolo intero
chiamato ad essere “mamlechet kohanim vegoy kadosh”, un regno di
sacerdoti e una nazione santa.
Dvar Torà – Sheminì: Il fuoco che consuma e quello che
eleva
Questa settimana leggiamo la Parashà Sheminì,
in cui assistiamo a uno dei momenti più intensi e drammatici della Torà: la
morte improvvisa di Nadav e Avihù, i figli di Aronne. Il testo dice:
“E presero ciascuno il suo braciere, vi misero
fuoco, vi posero sopra dell’incenso, e offrirono davanti ad Hashem un fuoco
estraneo, che Egli non aveva comandato... e un fuoco uscì da Hashem e li
consumò.” (Vayikrà 10:1-2)
Perché sono
morti?
La tradizione rabbinica offre molte
spiegazioni: erano ubriachi, non avevano consultato Mosè, non indossavano
le vesti sacerdotali, erano troppo presuntuosi. Ma poi arriva l’Or HaChayim, e
più tardi i maestri chassidici, a dire qualcosa di sconvolgente: Nadav e Avihù non
sono morti per punizione, ma perché si sono avvicinati troppo alla Luce.
Come una falena attratta dal fuoco, il loro desiderio di Dio era così bruciante
da farli consumare.
Non basta la
passione
In ebraico, il termine usato è "esh
zarà" – “fuoco estraneo”. Anche il fuoco, simbolo della Shechinà,
può diventare distruttivo se non è incanalato. Il messaggio è potente: non
tutto ciò che “viene dal cuore” è accettabile davanti a Dio. L’ebraismo non
ci chiede solo intenzione (kavanà), ma anche struttura, limiti,
precisione.
Rashì commenta: “Hanno deciso da sé – e non da un
comando divino.”
Ramban aggiunge: “Il loro peccato fu l’iniziativa non richiesta, perché anche
il bene non ordinato diventa trasgressione quando altera il servizio sacro.”
Il vero
servizio divino? Dentro i confini
Viviamo in un’epoca in cui si valorizza molto
l’autenticità, l’emozione, il sentirsi ispirati. Ma Sheminì ci insegna che anche
la spiritualità ha bisogno di una cornice. Un amore per Dio che ci
allontana dal mondo e ci consuma, non è quello che Hashem desidera. Lui ci
vuole presenti, sobri, attenti.
Il messaggio
per oggi
In un mondo dove è facile bruciare per una causa
e poi spegnersi, Sheminì ci invita a costruire una fiamma che dura. Non
un incendio emotivo, ma una ner tamid, una luce costante. Il vero
servizio è quello quotidiano, disciplinato, che non cerca solo il miracolo, ma
lavora nella realtà.
Come dice il Talmùd (Yomà 39a):
“Colui che si santifica da sé in basso, viene
santificato dall’Alto.”
Vuol dire: fai tu il primo passo, ma fallo con
misura, e Dio farà il resto — ti eleverà in modi che non puoi nemmeno
immaginare.
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