giovedì 24 aprile 2025

Parashà Sheminì

 

La Parashà Sheminì si apre con un momento di enorme importanza: l’ottavo giorno dell’inaugurazione del Mishkàn, il Tabernacolo. Dopo sette giorni di preparativi, ora è il momento in cui la presenza divina si manifesta apertamente. Aronne offre i primi sacrifici come sommo sacerdote, eseguendo i rituali con precisione. Alla fine del processo, un fuoco divino scende dal cielo e consuma le offerte: un chiaro segno che Dio ha accettato il culto d’Israele (Lev. 9:24).

Ma l’atmosfera si spezza all’improvviso. I figli di Aronne, Nadav e Avihù, offrono un “fuoco estraneo”, un’iniziativa personale e non autorizzata. Per questo motivo, un altro fuoco li consuma, ed essi muoiono davanti a Dio (Lev. 10:1-2). Mosè dice ad Aronne che la santità di Dio si manifesta con rigore soprattutto tra coloro che si avvicinano a Lui. Aronne, in silenzio, accetta il verdetto.

Segue un insegnamento fondamentale per i sacerdoti: vietato entrare nel Santuario in stato di ebbrezza. Infine, il testo si conclude con le leggi della kashrut (alimentazione lecita): vengono elencati gli animali, pesci e uccelli che si possono o non si possono mangiare.

Sintesi del commento talmudico/chassidico

Otto: il numero che trascende

Il numero otto, simbolo della trascendenza, rappresenta ciò che è oltre la natura. Il settimo giorno è la perfezione naturale (Shabbat), l’ottavo è miracolo, rivelazione pura. Il messaggio: attraverso l’impegno umano (i “sette giorni”), si può accedere alla luce divina (l’“ottavo giorno”).

Nadav e Avihù: martiri della luce

Il Rebbe di Lubavitch propone una lettura rivoluzionaria: i due figli non sono semplici trasgressori, ma anime elevate consumate da un amore inarrestabile per Dio. Morirono “per un bacio divino”, desiderosi di unirsi completamente con Lui. È un'“overdose spirituale”, una passione così intensa che li ha portati oltre i limiti umani. Vari maestri (Ohev Yisrael, Shamshon di Ostropola, Rebbe di Lelov) confermano l’interpretazione mistica: morirono perché si avvicinarono troppo alla luce divina. Non fu una punizione, ma una fusione dell’anima con Dio. Come il popolo che al Sinai chiese a Mosè di parlare al posto di Dio per timore di morire per la potenza della voce divina.

Kashrut e umiltà spirituale

Le regole alimentari vengono subito dopo questo evento per ricordarci che servire Dio non è solo estasi, ma anche disciplina. Anche se una regola non è comprensibile, va accettata come parte del “giogo del Cielo” (kabalat ol), superando la logica con la fede. Si raccontano episodi (come quello del Chatam Sofer) che sottolineano l’importanza di seguire scrupolosamente le leggi alimentari. Anche chi mangia cibo proibito per errore, viene spiritualmente danneggiato. Questo tema è fortemente legato alla purezza e alla disciplina spirituale quotidiana.

Il potere del cambiamento

Il messaggio è: “non è mai troppo tardi”. Anche chi è nel “49° livello di impurità” (come gli ebrei in Egitto) può elevarsi. L’ebreo kasher è quello che sa nuotare controcorrente. C'è una costante possibilità di ricominciare, come quando ogni mattina il mondo viene “ricreato da zero”.

La Parashà Sheminì ci parla della vicinanza a Dio e del rischio della passione senza limiti, ma anche dell’importanza della disciplina, dell’umiltà e della rigenerazione quotidiana. È un testo che unisce vertigini mistiche e rigore etico, fuoco divino e cibo kasher, silenzio sacro e grida di gioia.

Nel testo di Ebrei 9, si fa un parallelo tra il culto del Mishkàn e il sacrificio di Gesù come “sommo sacerdote perfetto”. In chiave ebraica, questo è un esempio classico di appropriazione simbolica: il sistema dei sacrifici non è superato, né si concentra in una figura unica e definitiva, ma è parte di una struttura divina continua, che trova senso nella molteplicità e nella ciclicità del culto ebraico.

Il Kohen Gadol (Sommo Sacerdote), come Aronne, non agisce per sé ma come shaliach tzibbur, emissario del popolo. Non si tratta mai di una salvezza individuale o mistica, ma di un processo collettivo dove ogni persona ha il dovere di correggere se stessa.

Inoltre, l’idea che un solo sacrificio possa "sostituire" tutti gli altri è estranea al pensiero ebraico. La teshuvà (ritorno), la tefillà (preghiera) e la tzedakà (giustizia) sono strumenti quotidiani, non atti unici e definitivi. Ogni giorno è un nuovo inizio — come insegna la stessa parashà di Sheminì.

Il paragone con Nadav e Avihù

Il richiamo alla morte di Anania e Saffira in Atti 5 viene spesso visto, nel mondo cristiano, come parallelismo con Nadav e Avihù. Ma in chiave ebraica questo confronto non regge se preso alla lettera.

  • Nadav e Avihù non mentono né compiono una truffa. La loro colpa è spirituale, non morale. Hanno cercato di entrare nella santità oltre i limiti stabiliti, e sono stati consumati dalla luce divina. La loro morte è letta, da molti maestri, non come punizione, ma come un'elevazione mistica estrema (un "bacio di Dio").
  • Anania e Saffira invece mentono consapevolmente, e il loro atto è di inganno materiale e sociale. Qui si tratta di ipocrisia e falsità, che corrompono la comunità. Non è un eccesso di zelo spirituale, ma il suo contrario.

Il messaggio di Nadav e Avihù è ebraico: non basta l'intenzione o l'ardore, serve rispetto delle mitzvòt e dei confini. Non puoi bruciare la tua anima nel Nome di Dio. L’ebraismo non è mistica distruttiva, ma santificazione disciplinata del mondo.

La lezione ebraica che si ricava è profonda:

“La santità non è nell’estasi, ma nel contenimento.”
Il Kohen Gadol entra nel Santo dei Santi una volta all’anno, e solo su ordine divino e dopo purificazione rituale. La santità è tremenda e pericolosa se si accosta con leggerezza o arroganza.

In questo senso, Nadav e Avihù ci insegnano che avere fervore non basta. Anche la devozione più intensa deve essere incanalata secondo la halachà. Non esiste un "salvatore perfetto" nell’ebraismo — esiste una comunità di cohanìm, e un popolo intero chiamato ad essere “mamlechet kohanim vegoy kadosh”, un regno di sacerdoti e una nazione santa.

Dvar Torà – Sheminì: Il fuoco che consuma e quello che eleva

Questa settimana leggiamo la Parashà Sheminì, in cui assistiamo a uno dei momenti più intensi e drammatici della Torà: la morte improvvisa di Nadav e Avihù, i figli di Aronne. Il testo dice:

“E presero ciascuno il suo braciere, vi misero fuoco, vi posero sopra dell’incenso, e offrirono davanti ad Hashem un fuoco estraneo, che Egli non aveva comandato... e un fuoco uscì da Hashem e li consumò.” (Vayikrà 10:1-2)

Perché sono morti?

La tradizione rabbinica offre molte spiegazioni: erano ubriachi, non avevano consultato Mosè, non indossavano le vesti sacerdotali, erano troppo presuntuosi. Ma poi arriva l’Or HaChayim, e più tardi i maestri chassidici, a dire qualcosa di sconvolgente: Nadav e Avihù non sono morti per punizione, ma perché si sono avvicinati troppo alla Luce. Come una falena attratta dal fuoco, il loro desiderio di Dio era così bruciante da farli consumare.

Non basta la passione

In ebraico, il termine usato è "esh zarà" – “fuoco estraneo”. Anche il fuoco, simbolo della Shechinà, può diventare distruttivo se non è incanalato. Il messaggio è potente: non tutto ciò che “viene dal cuore” è accettabile davanti a Dio. L’ebraismo non ci chiede solo intenzione (kavanà), ma anche struttura, limiti, precisione.

Rashì commenta: “Hanno deciso da sé – e non da un comando divino.”
Ramban aggiunge: “Il loro peccato fu l’iniziativa non richiesta, perché anche il bene non ordinato diventa trasgressione quando altera il servizio sacro.”

Il vero servizio divino? Dentro i confini

Viviamo in un’epoca in cui si valorizza molto l’autenticità, l’emozione, il sentirsi ispirati. Ma Sheminì ci insegna che anche la spiritualità ha bisogno di una cornice. Un amore per Dio che ci allontana dal mondo e ci consuma, non è quello che Hashem desidera. Lui ci vuole presenti, sobri, attenti.

Il messaggio per oggi

In un mondo dove è facile bruciare per una causa e poi spegnersi, Sheminì ci invita a costruire una fiamma che dura. Non un incendio emotivo, ma una ner tamid, una luce costante. Il vero servizio è quello quotidiano, disciplinato, che non cerca solo il miracolo, ma lavora nella realtà.

Come dice il Talmùd (Yomà 39a):

“Colui che si santifica da sé in basso, viene santificato dall’Alto.”

Vuol dire: fai tu il primo passo, ma fallo con misura, e Dio farà il resto — ti eleverà in modi che non puoi nemmeno immaginare.

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