Quando la
pelle parla per l’anima: cosa ci insegnano Tazria e Metzorà sul linguaggio, la
guarigione e lo sguardo
Nel cuore del Levitico, i capitoli di Tazria
e Metzorà parlano di malattie della pelle, di impurità e di rituali di
purificazione. A prima vista, sembrerebbero pagine antiche e remote,
apparentemente fuori tempo rispetto alla sensibilità moderna. Eppure, lette con
attenzione, queste parashot ci offrono una delle riflessioni più profonde
sull’essere umano, sul suo rapporto con la comunità e su come il corpo possa
farsi specchio dell’anima.
Perché nella Torah, la tzaraat – spesso
tradotta frettolosamente come “lebbra” – non è una malattia infettiva, ma un
segnale spirituale, un messaggio che affiora sulla pelle per dirci che
qualcosa, dentro, si è incrinato.
Il corpo non
mente: l’ombra della parola
La tradizione ebraica ci insegna che la tzaraat
non nasce da cause fisiche, ma morali. Il Talmud, con la sua sapienza
millenaria, collega questa condizione a comportamenti distruttivi come la
maldicenza, l’arroganza, l’invidia o lo sguardo negativo verso gli altri.
In altre parole: quando le parole fanno male, il corpo lo mostra.
Ed è qui che la Torah ci sorprende, anticipando
di millenni il principio fondamentale della medicina olistica: la malattia è
anche un messaggio, un’occasione per fermarsi, ascoltarsi e ricostruire
l’equilibrio tra corpo, emozioni e spirito.
L’isolamento
che cura
Il metzorà – la persona colpita dalla tzaraat –
veniva temporaneamente allontanato dall’accampamento. Non per punizione, ma per
protezione. Per permettergli di fare spazio, di entrare in ascolto, di compiere
un percorso interiore. Un isolamento che, nella sua solitudine, non è assenza,
ma presenza profonda: tempo per la consapevolezza, per rivedere le parole
dette, i pensieri coltivati, i giudizi espressi.
Anche qui, la Torah ci parla con una modernità
disarmante: non si guarisce solo con i farmaci o le tecniche, ma con
l’introspezione, il silenzio, il tempo giusto per ciascuno.
Il sacerdote – il Cohèn – non è un medico
nel senso tecnico. È una guida spirituale, che osserva non solo la
pelle, ma la persona. Prima di dichiarare l’impurità, aspetta. Valuta se è il
momento adatto. Perché non si guarisce quando lo dice un protocollo, ma
quando l’anima è pronta.
Sguardo che
ferisce, sguardo che guarisce
Un insegnamento potente emerge dal confronto tra
due parole: nèga (piaga) e oneg (delizia). In ebraico hanno le
stesse lettere: נ, ג, ע. Cambia solo l’ordine. E cambia il significato. A fare
la differenza è l’ayin, la “occhio”. Lo sguardo, diremmo oggi.
Questo piccolo dettaglio linguistico ci insegna
qualcosa di universale: la realtà non è solo ciò che accade, ma come la
vediamo. Una difficoltà può diventare una rovina o una rinascita. Una
parola può dividere o unire. Un giudizio può ferire o illuminare. Sta a noi
scegliere lo sguardo da cui partire.
Dalla parola
alla responsabilità
La Torah è molto attenta anche al linguaggio. Non
permette neppure al sacerdote di dire con certezza “è una piaga”, ma solo “mi
sembra una piaga”. È un esercizio di delicatezza, di sospensione del
giudizio. Un invito alla prudenza nel parlare degli altri.
Il Talmud spiega che le parole hanno un potere
immenso, non solo etico ma quasi “energetico”: chi calunnia, dicono i
Maestri, perde le sue buone azioni e si carica dei peccati di chi ha denigrato.
Non è solo questione morale. È una legge spirituale di causa-effetto.
La guarigione
è un cammino
Il percorso del metzorà, una volta guarito, è
dettagliato: immersione, offerte, unzioni. Il corpo viene riconsacrato, pezzo
per pezzo: orecchio, mano, piede. Come a dire: ascolta meglio, agisci con
consapevolezza, cammina con direzione.
Uno degli atti più simbolici è quello
dell’uccello lasciato libero: rappresenta la parola che ritorna pura. Non più
arma, ma canto. Parlare può ferire, ma può anche liberare. Il rito
insegna a usare la voce per benedire, non per distruggere.
Shabbat,
l’antidoto settimanale
In questo contesto, lo Shabbat appare come il
contrario del nèga: è oneg, piacere sacro. Il giorno in cui si torna a
casa, nella comunità, in se stessi. È la medicina settimanale per non cadere
nel veleno delle parole inutili, nella fatica dell’invidia, nel logoramento del
giudizio.
Un messaggio
attuale
Tazria e Metzorà sembrano parlare di un mondo
antico. E invece, ci raccontano il nostro presente. In un’epoca in cui si parla
troppo, si giudica velocemente e si dimentica l’ascolto, ci ricordano che ogni
parola è un atto medico: può curare o può infettare.
E ci insegnano che la guarigione vera nasce
dallo sguardo, da quella capacità di vedere oltre la macchia, oltre il
sintomo, per cogliere ciò che chiede di essere trasformato.
Guarire, in fondo, significa questo: mettere
l’occhio giusto nel posto giusto. Cambiare lo sguardo per cambiare la vita.
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