venerdì 2 maggio 2025

Parashot Tazria e Metzorà

 


Quando la pelle parla per l’anima: cosa ci insegnano Tazria e Metzorà sul linguaggio, la guarigione e lo sguardo

Nel cuore del Levitico, i capitoli di Tazria e Metzorà parlano di malattie della pelle, di impurità e di rituali di purificazione. A prima vista, sembrerebbero pagine antiche e remote, apparentemente fuori tempo rispetto alla sensibilità moderna. Eppure, lette con attenzione, queste parashot ci offrono una delle riflessioni più profonde sull’essere umano, sul suo rapporto con la comunità e su come il corpo possa farsi specchio dell’anima.

Perché nella Torah, la tzaraat – spesso tradotta frettolosamente come “lebbra” – non è una malattia infettiva, ma un segnale spirituale, un messaggio che affiora sulla pelle per dirci che qualcosa, dentro, si è incrinato.

Il corpo non mente: l’ombra della parola

La tradizione ebraica ci insegna che la tzaraat non nasce da cause fisiche, ma morali. Il Talmud, con la sua sapienza millenaria, collega questa condizione a comportamenti distruttivi come la maldicenza, l’arroganza, l’invidia o lo sguardo negativo verso gli altri. In altre parole: quando le parole fanno male, il corpo lo mostra.

Ed è qui che la Torah ci sorprende, anticipando di millenni il principio fondamentale della medicina olistica: la malattia è anche un messaggio, un’occasione per fermarsi, ascoltarsi e ricostruire l’equilibrio tra corpo, emozioni e spirito.

L’isolamento che cura

Il metzorà – la persona colpita dalla tzaraat – veniva temporaneamente allontanato dall’accampamento. Non per punizione, ma per protezione. Per permettergli di fare spazio, di entrare in ascolto, di compiere un percorso interiore. Un isolamento che, nella sua solitudine, non è assenza, ma presenza profonda: tempo per la consapevolezza, per rivedere le parole dette, i pensieri coltivati, i giudizi espressi.

Anche qui, la Torah ci parla con una modernità disarmante: non si guarisce solo con i farmaci o le tecniche, ma con l’introspezione, il silenzio, il tempo giusto per ciascuno.

Il sacerdote – il Cohèn – non è un medico nel senso tecnico. È una guida spirituale, che osserva non solo la pelle, ma la persona. Prima di dichiarare l’impurità, aspetta. Valuta se è il momento adatto. Perché non si guarisce quando lo dice un protocollo, ma quando l’anima è pronta.

Sguardo che ferisce, sguardo che guarisce

Un insegnamento potente emerge dal confronto tra due parole: nèga (piaga) e oneg (delizia). In ebraico hanno le stesse lettere: נ, ג, ע. Cambia solo l’ordine. E cambia il significato. A fare la differenza è l’ayin, la “occhio”. Lo sguardo, diremmo oggi.

Questo piccolo dettaglio linguistico ci insegna qualcosa di universale: la realtà non è solo ciò che accade, ma come la vediamo. Una difficoltà può diventare una rovina o una rinascita. Una parola può dividere o unire. Un giudizio può ferire o illuminare. Sta a noi scegliere lo sguardo da cui partire.

Dalla parola alla responsabilità

La Torah è molto attenta anche al linguaggio. Non permette neppure al sacerdote di dire con certezza “è una piaga”, ma solo “mi sembra una piaga”. È un esercizio di delicatezza, di sospensione del giudizio. Un invito alla prudenza nel parlare degli altri.

Il Talmud spiega che le parole hanno un potere immenso, non solo etico ma quasi “energetico”: chi calunnia, dicono i Maestri, perde le sue buone azioni e si carica dei peccati di chi ha denigrato. Non è solo questione morale. È una legge spirituale di causa-effetto.

La guarigione è un cammino

Il percorso del metzorà, una volta guarito, è dettagliato: immersione, offerte, unzioni. Il corpo viene riconsacrato, pezzo per pezzo: orecchio, mano, piede. Come a dire: ascolta meglio, agisci con consapevolezza, cammina con direzione.

Uno degli atti più simbolici è quello dell’uccello lasciato libero: rappresenta la parola che ritorna pura. Non più arma, ma canto. Parlare può ferire, ma può anche liberare. Il rito insegna a usare la voce per benedire, non per distruggere.

Shabbat, l’antidoto settimanale

In questo contesto, lo Shabbat appare come il contrario del nèga: è oneg, piacere sacro. Il giorno in cui si torna a casa, nella comunità, in se stessi. È la medicina settimanale per non cadere nel veleno delle parole inutili, nella fatica dell’invidia, nel logoramento del giudizio.

Un messaggio attuale

Tazria e Metzorà sembrano parlare di un mondo antico. E invece, ci raccontano il nostro presente. In un’epoca in cui si parla troppo, si giudica velocemente e si dimentica l’ascolto, ci ricordano che ogni parola è un atto medico: può curare o può infettare.

E ci insegnano che la guarigione vera nasce dallo sguardo, da quella capacità di vedere oltre la macchia, oltre il sintomo, per cogliere ciò che chiede di essere trasformato.

Guarire, in fondo, significa questo: mettere l’occhio giusto nel posto giusto. Cambiare lo sguardo per cambiare la vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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