giovedì 24 aprile 2025

Parashà Sheminì

 

La Parashà Sheminì si apre con un momento di enorme importanza: l’ottavo giorno dell’inaugurazione del Mishkàn, il Tabernacolo. Dopo sette giorni di preparativi, ora è il momento in cui la presenza divina si manifesta apertamente. Aronne offre i primi sacrifici come sommo sacerdote, eseguendo i rituali con precisione. Alla fine del processo, un fuoco divino scende dal cielo e consuma le offerte: un chiaro segno che Dio ha accettato il culto d’Israele (Lev. 9:24).

Ma l’atmosfera si spezza all’improvviso. I figli di Aronne, Nadav e Avihù, offrono un “fuoco estraneo”, un’iniziativa personale e non autorizzata. Per questo motivo, un altro fuoco li consuma, ed essi muoiono davanti a Dio (Lev. 10:1-2). Mosè dice ad Aronne che la santità di Dio si manifesta con rigore soprattutto tra coloro che si avvicinano a Lui. Aronne, in silenzio, accetta il verdetto.

Segue un insegnamento fondamentale per i sacerdoti: vietato entrare nel Santuario in stato di ebbrezza. Infine, il testo si conclude con le leggi della kashrut (alimentazione lecita): vengono elencati gli animali, pesci e uccelli che si possono o non si possono mangiare.

Sintesi del commento talmudico/chassidico

Otto: il numero che trascende

Il numero otto, simbolo della trascendenza, rappresenta ciò che è oltre la natura. Il settimo giorno è la perfezione naturale (Shabbat), l’ottavo è miracolo, rivelazione pura. Il messaggio: attraverso l’impegno umano (i “sette giorni”), si può accedere alla luce divina (l’“ottavo giorno”).

Nadav e Avihù: martiri della luce

Il Rebbe di Lubavitch propone una lettura rivoluzionaria: i due figli non sono semplici trasgressori, ma anime elevate consumate da un amore inarrestabile per Dio. Morirono “per un bacio divino”, desiderosi di unirsi completamente con Lui. È un'“overdose spirituale”, una passione così intensa che li ha portati oltre i limiti umani. Vari maestri (Ohev Yisrael, Shamshon di Ostropola, Rebbe di Lelov) confermano l’interpretazione mistica: morirono perché si avvicinarono troppo alla luce divina. Non fu una punizione, ma una fusione dell’anima con Dio. Come il popolo che al Sinai chiese a Mosè di parlare al posto di Dio per timore di morire per la potenza della voce divina.

Kashrut e umiltà spirituale

Le regole alimentari vengono subito dopo questo evento per ricordarci che servire Dio non è solo estasi, ma anche disciplina. Anche se una regola non è comprensibile, va accettata come parte del “giogo del Cielo” (kabalat ol), superando la logica con la fede. Si raccontano episodi (come quello del Chatam Sofer) che sottolineano l’importanza di seguire scrupolosamente le leggi alimentari. Anche chi mangia cibo proibito per errore, viene spiritualmente danneggiato. Questo tema è fortemente legato alla purezza e alla disciplina spirituale quotidiana.

Il potere del cambiamento

Il messaggio è: “non è mai troppo tardi”. Anche chi è nel “49° livello di impurità” (come gli ebrei in Egitto) può elevarsi. L’ebreo kasher è quello che sa nuotare controcorrente. C'è una costante possibilità di ricominciare, come quando ogni mattina il mondo viene “ricreato da zero”.

La Parashà Sheminì ci parla della vicinanza a Dio e del rischio della passione senza limiti, ma anche dell’importanza della disciplina, dell’umiltà e della rigenerazione quotidiana. È un testo che unisce vertigini mistiche e rigore etico, fuoco divino e cibo kasher, silenzio sacro e grida di gioia.

Nel testo di Ebrei 9, si fa un parallelo tra il culto del Mishkàn e il sacrificio di Gesù come “sommo sacerdote perfetto”. In chiave ebraica, questo è un esempio classico di appropriazione simbolica: il sistema dei sacrifici non è superato, né si concentra in una figura unica e definitiva, ma è parte di una struttura divina continua, che trova senso nella molteplicità e nella ciclicità del culto ebraico.

Il Kohen Gadol (Sommo Sacerdote), come Aronne, non agisce per sé ma come shaliach tzibbur, emissario del popolo. Non si tratta mai di una salvezza individuale o mistica, ma di un processo collettivo dove ogni persona ha il dovere di correggere se stessa.

Inoltre, l’idea che un solo sacrificio possa "sostituire" tutti gli altri è estranea al pensiero ebraico. La teshuvà (ritorno), la tefillà (preghiera) e la tzedakà (giustizia) sono strumenti quotidiani, non atti unici e definitivi. Ogni giorno è un nuovo inizio — come insegna la stessa parashà di Sheminì.

Il paragone con Nadav e Avihù

Il richiamo alla morte di Anania e Saffira in Atti 5 viene spesso visto, nel mondo cristiano, come parallelismo con Nadav e Avihù. Ma in chiave ebraica questo confronto non regge se preso alla lettera.

  • Nadav e Avihù non mentono né compiono una truffa. La loro colpa è spirituale, non morale. Hanno cercato di entrare nella santità oltre i limiti stabiliti, e sono stati consumati dalla luce divina. La loro morte è letta, da molti maestri, non come punizione, ma come un'elevazione mistica estrema (un "bacio di Dio").
  • Anania e Saffira invece mentono consapevolmente, e il loro atto è di inganno materiale e sociale. Qui si tratta di ipocrisia e falsità, che corrompono la comunità. Non è un eccesso di zelo spirituale, ma il suo contrario.

Il messaggio di Nadav e Avihù è ebraico: non basta l'intenzione o l'ardore, serve rispetto delle mitzvòt e dei confini. Non puoi bruciare la tua anima nel Nome di Dio. L’ebraismo non è mistica distruttiva, ma santificazione disciplinata del mondo.

La lezione ebraica che si ricava è profonda:

“La santità non è nell’estasi, ma nel contenimento.”
Il Kohen Gadol entra nel Santo dei Santi una volta all’anno, e solo su ordine divino e dopo purificazione rituale. La santità è tremenda e pericolosa se si accosta con leggerezza o arroganza.

In questo senso, Nadav e Avihù ci insegnano che avere fervore non basta. Anche la devozione più intensa deve essere incanalata secondo la halachà. Non esiste un "salvatore perfetto" nell’ebraismo — esiste una comunità di cohanìm, e un popolo intero chiamato ad essere “mamlechet kohanim vegoy kadosh”, un regno di sacerdoti e una nazione santa.

Dvar Torà – Sheminì: Il fuoco che consuma e quello che eleva

Questa settimana leggiamo la Parashà Sheminì, in cui assistiamo a uno dei momenti più intensi e drammatici della Torà: la morte improvvisa di Nadav e Avihù, i figli di Aronne. Il testo dice:

“E presero ciascuno il suo braciere, vi misero fuoco, vi posero sopra dell’incenso, e offrirono davanti ad Hashem un fuoco estraneo, che Egli non aveva comandato... e un fuoco uscì da Hashem e li consumò.” (Vayikrà 10:1-2)

Perché sono morti?

La tradizione rabbinica offre molte spiegazioni: erano ubriachi, non avevano consultato Mosè, non indossavano le vesti sacerdotali, erano troppo presuntuosi. Ma poi arriva l’Or HaChayim, e più tardi i maestri chassidici, a dire qualcosa di sconvolgente: Nadav e Avihù non sono morti per punizione, ma perché si sono avvicinati troppo alla Luce. Come una falena attratta dal fuoco, il loro desiderio di Dio era così bruciante da farli consumare.

Non basta la passione

In ebraico, il termine usato è "esh zarà" – “fuoco estraneo”. Anche il fuoco, simbolo della Shechinà, può diventare distruttivo se non è incanalato. Il messaggio è potente: non tutto ciò che “viene dal cuore” è accettabile davanti a Dio. L’ebraismo non ci chiede solo intenzione (kavanà), ma anche struttura, limiti, precisione.

Rashì commenta: “Hanno deciso da sé – e non da un comando divino.”
Ramban aggiunge: “Il loro peccato fu l’iniziativa non richiesta, perché anche il bene non ordinato diventa trasgressione quando altera il servizio sacro.”

Il vero servizio divino? Dentro i confini

Viviamo in un’epoca in cui si valorizza molto l’autenticità, l’emozione, il sentirsi ispirati. Ma Sheminì ci insegna che anche la spiritualità ha bisogno di una cornice. Un amore per Dio che ci allontana dal mondo e ci consuma, non è quello che Hashem desidera. Lui ci vuole presenti, sobri, attenti.

Il messaggio per oggi

In un mondo dove è facile bruciare per una causa e poi spegnersi, Sheminì ci invita a costruire una fiamma che dura. Non un incendio emotivo, ma una ner tamid, una luce costante. Il vero servizio è quello quotidiano, disciplinato, che non cerca solo il miracolo, ma lavora nella realtà.

Come dice il Talmùd (Yomà 39a):

“Colui che si santifica da sé in basso, viene santificato dall’Alto.”

Vuol dire: fai tu il primo passo, ma fallo con misura, e Dio farà il resto — ti eleverà in modi che non puoi nemmeno immaginare.

lunedì 14 aprile 2025

ANCORA SULLA QUESTIONE PALESTINESE

 


La storia degli ebrei in Terra di Israele/Palestina è lunga e complessa, con periodi di esilio e di ritorno. Tuttavia, è importante notare che, nonostante gli esili e le persecuzioni, gli ebrei hanno sempre mantenuto una presenza in Terra di Israele/Palestina.

Anche durante i periodi di esilio, gli ebrei sono rimasti legati alla loro terra d'origine e hanno continuato a vivere lì, anche se in minoranza. Questo è stato possibile grazie alla presenza di comunità ebraiche in città come Gerusalemme, Safed, Tiberiade e Hebron.
Inoltre, durante il periodo ottomano (1517-1917), gli ebrei hanno potuto tornare in Terra di Israele/Palestina e stabilirsi lì. Molti ebrei provenienti dall'Europa e dal Nord Africa sono emigrati in Palestina durante questo periodo.


D'altra parte, la presenza araba in Palestina è relativamente recente. Infatti, la maggior parte dei palestinesi odierni sono discendenti di arabi giordani e siriani che si sono trasferiti in Palestina durante il periodo ottomano e britannico (1917-1948). Prima di quel periodo, la regione era abitata da una popolazione mista di ebrei, cristiani e musulmani.
Inoltre, fino agli anni '60 del XX secolo, i palestinesi non erano considerati un popolo distinto, ma piuttosto come parte della più ampia comunità araba. La creazione di un'identità palestinese distinta è un fenomeno relativamente recente, che si è sviluppato in risposta alla creazione dello Stato di Israele e al conflitto israelo-palestinese.


Quindi, sebbene gli ebrei siano stati esiliati e perseguitati nel corso della storia, hanno sempre mantenuto una presenza in Terra di Israele/Palestina. La creazione di uno Stato ebraico in Palestina è stata una risposta legittima alla storia di persecuzione e di esilio degli ebrei, e non ha cancellato i diritti dei palestinesi, ma ha piuttosto creato una situazione complessa che richiede una soluzione negoziata e pacifica non sempre possibile.

La questione palestinese è stata imposta alla comunità internazionale mediante pochi leader che non erano neanche palestinesi, in chiave antisionista. Si deve considerare che dalla fondazione dello Stato di Israele ogni tentativo militare arabo è fallito, da cui il ricorso al terrorismo.
Se consideriamo legittimo il terrorismo palestinese come metodo di lotta per rivendicare uno Stato, allora dobbiamo considerare legittimo il terrorismo come metodo di lotta in generale.

Tuttavia, questo solleva una serie di problemi etici e morali. Il terrorismo, per definizione, coinvolge l'uso della violenza e della paura per raggiungere obiettivi politici, e spesso comporta la morte e il ferimento di innocenti.
Gli attentati palestinesi nel mondo hanno causato la morte e il ferimento di migliaia di persone, tra cui civili, donne e bambini. Alcuni esempi includono:

  • Gli attentati alle Olimpiadi di Monaco del 1972, in cui 11 atleti israeliani furono uccisi.

  • L'attentato alla sinagoga di Roma del 1982, in cui 2 persone furono uccise e 37 ferite.

  • Gli attentati suicidi a Gerusalemme e Tel Aviv negli anni '90 e 2000, in cui centinaia di persone furono uccise e ferite.

  • L'attentato alla scuola di Ma'alot del 1974, in cui 22 scolari furono uccisi.

Se consideriamo legittimo il terrorismo palestinese, allora dobbiamo anche considerare legittimo il terrorismo di altre organizzazioni, come Al-Qaeda, l'ISIS, le Brigate Rosse, l'ETA basca, ecc. Questo significherebbe che la violenza e il terrore sono accettabili come metodi di lotta politica, il che è moralmente ed eticamente inaccettabile, oltre che estremamente pericoloso.

Inoltre, è importante notare che i palestinesi negano il diritto di esistere dello Stato ebraico per ragioni religiose, in quanto considerano la Palestina come una terra sacra islamica (waqf) e ritengono che gli ebrei non abbiano il diritto di stabilirsi lì.
Il Corano contiene alcuni versetti che possono essere interpretati come una prescrizione di violenza contro gli ebrei, i cristiani e altri non musulmani, come ad esempio la sura 9, versetto 29.

Questi fattori aggiungono un'ulteriore dimensione di complessità alla questione, e sottolineano l'importanza di promuovere metodi di lotta pacifici e democratici, come la negoziazione, la diplomazia e la protesta non violenta.

Tuttavia, è doveroso osservare che parlare di "negoziato" risulta particolarmente complesso considerando il contesto religioso. In particolare, l'Islam, nella sua interpretazione più tradizionale, non prevede il riconoscimento di uno Stato non musulmano su una terra considerata sacra. Questa visione rende estremamente difficile la possibilità di un compromesso duraturo, poiché per molti non si tratta solo di una questione politica, ma di un dovere religioso.

Allo stesso modo, per gli ebrei religiosi, la Terra di Israele non è semplicemente una patria storica o politica, ma costituisce un elemento fondamentale della fede ebraica, radicato nella promessa divina fatta ad Abramo. La terra ha un valore sacro e costitutivo dell’identità religiosa e nazionale ebraica. Ignorare questa dimensione spirituale significa fraintendere la profondità del legame ebraico con la regione.

Se le diplomazie occidentali non tengono conto di questo duplice elemento religioso — da entrambe le parti — sarà impossibile trovare soluzioni stabili e durature. La questione israelo-palestinese non può essere trattata come una semplice disputa territoriale: essa tocca convinzioni profonde, identità religiose e visioni del mondo non facilmente negoziabili.

Invece di legittimare il terrorismo, dovremmo lavorare per creare un ambiente in cui i diritti e le esigenze di tutte le parti coinvolte siano rispettati e considerati. Ciò richiede un impegno sincero per la pace, la giustizia e la comprensione reciproca.

domenica 6 aprile 2025

LA CASA NEGATA: GIOVANI, FAMIGLIE E IL NUOVO GHETTO DELL’ABITARE

 


Un sogno sempre più irraggiungibile.
È questa la realtà che si presenta a migliaia di giovani coppie, studenti e famiglie monoreddito che cercano di costruirsi una vita autonoma. Trovare una casa oggi in Italia, specie nelle grandi città come Roma e Milano, è diventato un lusso riservato a pochi. Se non sei figlio di un professionista, di un imprenditore, di un politico o di un dirigente con un solido patrimonio immobiliare alle spalle, il mercato ti esclude o ti espelle.

Dati alla mano, la situazione è drammatica.
Secondo il rapporto ISTAT 2023, oltre il 40% dei giovani under 35 vive ancora nella casa dei genitori, non per scelta, ma per necessità economica. A Roma, l’affitto medio di un monolocale ha superato i 900 euro mensili, mentre a Milano si sfiorano i 1.100 euro. Per studenti universitari o neolaureati con contratti precari, accedere a un affitto regolare è un’impresa titanica.

E non basta poter pagare: ai futuri inquilini vengono richieste garanzie spropositate, come fideiussioni bancarie o genitori garanti con redditi alti, condizioni che di fatto escludono la maggior parte delle persone normali. Come se si stesse richiedendo un mutuo e non la semplice locazione di un piccolo appartamento.

Le famiglie monoreddito e le madri single sono ancora più penalizzate.
Secondo il CENSIS, 1 famiglia su 5 in Italia vive in condizioni di vulnerabilità abitativa. Il risultato? Una crescente marginalizzazione sociale. Nel frattempo, in ogni angolo delle nostre città spuntano Bed&Breakfast e affitti turistici: il numero di B&B a Roma è aumentato del 29% negli ultimi cinque anni (fonte: Confcommercio 2024), riducendo ulteriormente l’offerta di immobili destinati all’affitto residenziale.

Ma quali sono le cause di questa emergenza abitativa?
Una parte della sinistra politica tende a indicare nella “proprietà privata” la radice del problema, legittimando, di fatto, pratiche come l’occupazione abusiva delle case. Non a caso, l’Onorevole Ilaria Salis, eletta al Parlamento Europeo nonostante una pendenza penale, ha più volte sostenuto l’occupazione come strumento di rivendicazione sociale. Questo messaggio, già di per sé pericoloso, si somma all'azione di gruppi criminali organizzati, spesso composti da immigrati irregolari o comunità rom, che occupano illegalmente appartamenti pubblici e privati.

A questo si aggiunge un altro fenomeno sommerso:
Sempre più spesso, persone che hanno perso il lavoro smettono di pagare l'affitto e, protette da una normativa estremamente garantista, restano negli immobili per mesi o anni, rendendo complesso e costoso il procedimento di sfratto. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, nel 2023 ci sono stati oltre 53.000 sfratti esecutivi pendenti, ma solo il 18% è stato effettivamente eseguito.

Il quadro si complica ulteriormente quando si affrontano le occupazioni abusive. In Italia, il recupero di un immobile occupato è spesso lento e ostacolato da interpretazioni giurisprudenziali che, in nome dell’inclusione sociale, sacrificano i diritti dei proprietari.

E allora, viene naturale chiedersi: perché i proprietari oggi chiedono così tante garanzie? Perché preferiscono gli affitti brevi turistici invece di rischiare lunghi contenziosi legali? La risposta non è nella "cattiveria" del privato, ma in un sistema legislativo che penalizza chi affitta in modo regolare e tutela chi viola le regole.

La vera radice del problema è un impianto normativo sbagliato, che protegge l’illegalità e disincentiva il mercato residenziale. Leggi confuse, procedure di sfratto farraginose e una magistratura spesso imbrigliata da pregiudizi ideologici creano un ambiente tossico, in cui il diritto alla casa si trasforma in privilegio per pochi.

In questo contesto, senza sponsor politici o appoggi influenti, trovare casa diventa quasi impossibile.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: giovani costretti a restare a casa dei genitori, famiglie spezzate, studenti fuori sede in difficoltà cronica. E intanto il tessuto sociale delle nostre città si sfilaccia, mentre nessuno sembra voler cambiare davvero le regole del gioco.


Va-icra Levitico 1-5 Sacrificare il proprio EGO

 



L'Olocausto, in ebraico olah (עֹלָה), deriva da una radice che significa "salire". Era un sacrificio completamente bruciato sull'altare: il fumo si innalzava verso Dio, senza che nessuna parte dell’animale venisse consumata. Era un gesto di dedizione totale e sottomissione alla volontà divina, non necessariamente legato al peccato, ma espressione di amore assoluto verso Dio.

Accanto a questo tipo di sacrificio troviamo i shelamim (שְׁלָמִים), i sacrifici di pace o offerte di benessere. Il termine evoca pace, completezza e armonia. In questo caso, l’animale veniva sacrificato ma il dono era condiviso: una parte veniva bruciata sull’altare, una parte mangiata dai sacerdoti e una parte dallo stesso offerente, spesso in compagnia di amici e parenti, in un banchetto sacro che celebrava l'armonia con Dio.

Esistevano anche sacrifici legati all’espiazione dei peccati, come il chatat (חַטָּאת) e l’asham (אָשָׁם). Il chatat veniva offerto per errori involontari, mentre l’asham era richiesto per colpe più gravi, come appropriazioni indebite o profanazioni del sacro. In questi sacrifici, parte dell’animale veniva bruciata, parte assegnata ai sacerdoti, e il sangue impiegato in riti specifici di purificazione.

La Torah ci offre esempi concreti: Abramo che offre Isacco sul monte Moriah è un olocausto; il nazirato che si concludeva con i shelamim; e il Sommo Sacerdote che a Yom Kippur offriva un chatat per purificare l’intero popolo.

Solo animali domestici e mansueti potevano essere sacrificati: bovini, ovini, caprini, simboli della parte più pura e controllata dell’essere umano. Chi non poteva permettersi grandi offerte, poteva presentare un sacrificio più umile, come colombe o farina, perché a Dio importa il cuore, non il valore materiale.

Il toro rappresentava forza, orgoglio e potenza fisica: offrire un toro significava sottomettere la propria forza a Dio. La pecora e l’agnello, simboli di innocenza e umiltà, rappresentavano la fedeltà e la purezza. La capra, più indipendente, alludeva alla testardaggine umana. Gli uccelli, come le tortore e i colombi, erano l’offerta dei poveri, e simboleggiavano semplicità e pace. Le offerte farinacee, come la minchah, erano per chi non poteva offrire animali: semplici ingredienti – farina, olio e incenso – ma il gesto era carico di valore, come insegna il Talmud: "Chi offre una minchah è come se avesse offerto la propria anima."

A questo si collega un bellissimo Midrash narrato in Vayikrà Rabbah. Un uomo, tanto povero da non poter permettersi nemmeno una colomba, desiderava comunque avvicinarsi a Dio. Raccolse la poca farina che aveva e la portò come offerta al Tempio. Dio, vedendo il suo cuore, disse: "È come se avesse offerto la sua stessa vita davanti a Me." Quella manciata di farina, donata con amore, fu accolta da Dio con più gioia di tanti tori e arieti sacrificati dai ricchi.

Il Talmud, in Menachot, aggiunge che oggi chi studia e recita le parti della Torah sui sacrifici è considerato come se li avesse realmente offerti. Il Midrash Tanchuma racconta ancora che, dopo la distruzione del Tempio, gli angeli chiesero a Dio come sarebbe stato possibile mantenere il legame con Lui senza più sacrifici. Dio rispose: "Quando leggono e studiano la Torah sui korbanot, è come se Mi portassero tori sull'altare." E aggiunse: una preghiera detta con sincerità vale più di mille tori sacrificati senza cuore.

Le parole sincere salgono fino al Trono Celeste, proprio come i profumi e i fumi dei sacrifici antichi. Oggi, il nostro cuore è il nuovo altare. Il Salmo 51 lo esprime meravigliosamente: "I sacrifici di Dio sono uno spirito spezzato; un cuore contrito e umile, Dio non disprezzerà." Non conta quanto offriamo materialmente, conta quanto ci doniamo con sincerità.

Oggi i nostri "sacrifici" sono la preghiera, che ha preso il posto dei korbanot; lo studio della Torah, che è come offrire un olocausto; e gli atti di gentilezza, che sostituiscono i shelamim di pace.

Nel sistema dei sacrifici, anche il tipo di animale offerto rifletteva la gravità della colpa e la responsabilità della persona. Il Sommo Sacerdote e il popolo, responsabili spiritualmente dell’intera nazione, offrivano un toro, simbolo di forza e orgoglio da purificare. I principi offrivano un capro, animale associato alla testardaggine, mentre le persone comuni offrivano una pecora o una capra femmina, segno di peccati più personali e fragili.

Quando la colpa era collettiva, era come una ferita inferta al "corpo unico" di Israele. Nella Torah, Israele non è una somma di individui, ma un solo organismo vivente. Se un dito si ferisce, soffre solo il dito; ma se si ferisce il cuore, l'intero corpo è in pericolo. Una colpa collettiva è una ferita al cuore stesso di Israele.

Dio ha scelto Israele per essere "una luce per le nazioni". Quando Israele pecca come popolo, la sua missione si oscura, e con essa ne soffre tutto il progetto divino per il mondo. La purezza spirituale di Israele non riguarda solo se stesso, ma anche il benessere dell’umanità intera.

Nella tradizione ebraica vige il principio "Kol Yisrael arevim zeh bazeh" – "Tutti gli ebrei sono responsabili gli uni degli altri". Non esiste salvezza personale separata: ogni individuo ha una responsabilità reciproca, deve educare, aiutare e migliorare chi gli sta intorno. Se una società intera sbaglia, vuol dire che qualcosa si è rotto nel tessuto stesso della comunità, e tutti ne portano una parte di responsabilità.

Quando Israele è unito, è come un unico cuore vivo e pulsante. Quando pecca collettivamente, è come se tutto il cuore fosse ferito. La santità si moltiplica quando il popolo è unito nella purezza, ma si ritira quando cade nel peccato. E questa perdita non colpisce solo Israele, ma tutto il mondo, che da Israele attende luce, guida e benedizione.

domenica 23 marzo 2025

STRADE DISSESTATE: MALAFEDE O INCOMPETENZA? UN'INCHIESTA SUL DEGRADO SOTTO GLI OCCHI DI TUTTI

 

Passeggiare oggi sulle nostre strade equivale a vivere un safari urbano. Marciapiedi sconnessi, asfalto rattoppato, buche che sembrano trappole. Una situazione che, da anni, si ripete sotto ogni amministrazione, di qualsiasi colore politico. I cittadini inciampano, letteralmente, nell’indifferenza. E non si tratta solo di una questione estetica: si parla di sicurezza, di soldi pubblici e, forse, di qualcosa di più grave.

Durante ogni campagna elettorale le promesse abbondano: "Metteremo a posto le strade!", "Stop al degrado!". Eppure, una volta chiuse le urne, tutto resta com'è. O peggiora. La giustificazione ufficiale è sempre la stessa: "problemi di bilancio". Ma davvero i soldi sono l’unico ostacolo? Oppure dietro questo disastro urbano si nasconde malafede o, nella migliore delle ipotesi, incompetenza?

A detta dei tecnici, la causa principale del deterioramento delle strade sarebbe da ricercare nelle infiltrazioni d’acqua piovana, nelle escursioni termiche e nel traffico pesante. È vero, le sollecitazioni climatiche e meccaniche stressano il manto stradale. Tuttavia, il problema reale emerge quando le opere non sono realizzate ad arte.

Secondo le norme tecniche UNI, l'asfalto deve rispettare precisi standard qualitativi. Se i materiali impiegati sono scadenti, o se gli strati di asfalto sono troppo sottili, il risultato è una superficie fragile, destinata a cedere in poco tempo. Non meno grave è l’esecuzione dei sottoservizi: scavi mal ripristinati e rattoppi improvvisati compromettono definitivamente la stabilità del fondo stradale.

E qui sorge spontanea una domanda: chi dovrebbe vigilare sulla qualità dei lavori appaltati? La risposta è chiara: il Direttore dei Lavori, nominato dal Comune. È lui il responsabile del controllo dei materiali, della corretta esecuzione, della conformità al capitolato d’appalto. Se le nostre strade sono in queste condizioni, significa che i controlli non vengono svolti adeguatamente.

A questo punto, le ipotesi sono due: o il Direttore dei Lavori è incompetente, o è ingenuamente fiducioso verso l’impresa esecutrice. Oppure, ipotesi ancor più grave, complice. Un'ombra che dovrebbe allertare non solo i cittadini, ma anche le autorità competenti, perché la mala esecuzione di opere pubbliche non è solo un danno economico, è una ferita al tessuto civile.

Non si tratta di un problema limitato a questa o a quella amministrazione. È una piaga trasversale, che si ripete a ogni cambio di governo locale, come un copione già scritto. Possibile che politici e dirigenti, camminando ogni giorno su strade dissestate, non vedano? O peggio, facciano finta di non vedere?

C'è poi l’incredibile questione della pianificazione dei lavori. Si riasfalta una strada – spesso male – salvo poi, poche settimane dopo, assegnare un nuovo appalto per realizzare sottoservizi. Risultato: scavi sull’asfalto nuovo e ripristini approssimativi che rendono vani i soldi appena spesi. Una gestione grottesca delle risorse pubbliche, che alimenta un continuo circolo vizioso di appalti e rattoppi.

A fronte di un problema così evidente, stupisce il silenzio. Nessun approfondimento giornalistico, nessuna interrogazione consiliare degna di nota, nessun dibattito pubblico acceso. Una complice unanimità nel tacere, mentre i cittadini sbandano, inciampano e pagano il prezzo di strade insicure.

Eppure le conseguenze sono gravissime: oltre al degrado urbano, si compromette la sicurezza di pedoni e automobilisti. Aumentano i costi sociali, gli incidenti, la necessità di ulteriori bandi di gara.

La domanda finale è inquietante: è forse questo l’obiettivo? Un sistema che, invece di risolvere, alimenta sé stesso? Dove il degrado diventa un’occasione di spesa continua, un business della riparazione perpetua?

Il degrado delle strade non è solo un segno di inefficienza amministrativa. È un indicatore di quanto la cura del bene comune sia stata sacrificata sull'altare di interessi opachi.

giovedì 13 marzo 2025

IN UN PAESE DIVISO, ANCHE LA DEMOCRAZIA SI SGRETOLA: IL CASO ITALIA TRA CONFLITTO POLITICO E CRISI SOCIALE

 

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"Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi." Questo monito antico, pronunciato da Gesù nel Vangelo di Marco (3,24-25), riecheggia oggi con inquietante attualità nella situazione politica italiana. E non è un ammonimento isolato: anche nella Torah, nei testi di Isaia (19,2) e 2 Samuele (3,1), si avverte che la divisione interna di una casa o di un regno ne prelude alla rovina.

Storia antica? Affatto. La cronaca politica italiana sembra, infatti, riprodurre fedelmente questi scenari, incapace di imparare dagli errori del passato. La divisione interna, lungi dall'essere soltanto una questione ideologica, si traduce in lacerazioni sociali, impoverimento economico e degrado culturale.

Secondo un recente rapporto dell'Istat (2024), oltre il 65% degli italiani ritiene che il linguaggio politico sia divenuto "aggressivo" e "delegittimante", mentre il 62% afferma che il dibattito pubblico sia più orientato allo scontro personale che alla proposta di soluzioni concrete.

Nei talk show televisivi, il confronto sui contenuti è ormai un miraggio: slogan, accuse reciproche, etichette infamanti come "comunisti", "fascisti", "complottisti", "clericali" sostituiscono ogni tentativo di dialogo costruttivo. Il vero obiettivo non è risolvere problemi, ma consolidare posizioni di potere all'interno dei partiti.

E mentre il cittadino rimane prigioniero di problemi irrisolti, la politica riesce a trovare una sorprendente unità su un solo tema: il denaro.
L’ultimo scandalo? L’aumento del finanziamento pubblico ai partiti, passato da 25 a 42 milioni di euro annui con voto bipartisan. Solo l'intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha evitato un incremento ancora maggiore.
Nonostante il tentativo di mascherare l’operazione abbassando l'aliquota, i fondi non destinati esplicitamente dai cittadini vengono comunque redistribuiti ai partiti. Uno stratagemma che appare ancora più scandaloso se si considera che l’astensione elettorale ha raggiunto il 41% alle ultime elezioni europee, il massimo storico.

Sanità, sicurezza, casa e lavoro? Questi temi cruciali restano senza una sintesi politica. I politici, al riparo di assicurazioni private e privilegi, sembrano incapaci di fornire risposte efficaci, mentre aumentano i costi energetici e cresce il debito pubblico, ora al 137% del PIL secondo Eurostat.

La minaccia interna: l'Islam radicale e il fallimento dell'integrazione

In un'Italia politicamente frantumata, si fa strada un'altra crisi: quella identitaria.
La Commissione Europea ha segnalato nel 2023 che l'Italia è tra i paesi UE con il tasso più basso di integrazione degli immigrati di origine musulmana, evidenziando una crescente marginalizzazione sociale e culturale.

Secondo il Ministero dell'Interno, oltre il 60% dei reati nelle aree metropolitane è commesso da stranieri, molti dei quali di fede islamica. Al contempo, cresce l'occupazione abusiva di case popolari, l'uso improprio degli spazi pubblici e le denunce di molestie ai danni di donne italiane.

La sinistra democratica, in nome di diritti e tolleranza, appare spesso inconsapevole di prestarsi come cavallo di Troia per frange dell'Islam più radicale. Un paradosso tragico: i valori liberali che la sinistra ha difeso per decenni – laicità, uguaglianza di genere, libertà di espressione – vengono oggi minati da una cultura che li rigetta apertamente.

Dall'altra parte, la destra democratica si arena nella distinzione tra "immigrazione regolare" e "irregolare", senza interrogarsi a fondo su chi entra e quali valori porta con sé.
Il rischio? Favorire l’ingresso di gruppi culturali non integrabili, che non intendono assimilarsi ma piuttosto sostituire il modello sociale europeo.

Come osservava lo storico Bernard Lewis già negli anni '90, "L'Europa rischia di essere conquistata non con la spada, ma con la demografia e la cultura."
Una profezia che, nella frammentazione e nella debolezza attuali, rischia di avverarsi.

Conclusione: Dividersi è Morire

La storia insegna, la politica dimentica.
Se la casa è divisa contro se stessa, come ammonivano i testi sacri, non potrà reggersi. In Italia oggi si assiste ad una drammatica replica di questo schema, mentre il tempo a disposizione per correggere la rotta si assottiglia.
Un popolo diviso è un popolo destinato a soccombere.

sabato 1 marzo 2025

L'Europa e Trump

 

Il 28 Febbraio 2025 il presidente Ukraino Volodymyr Zelensky ed il Presidente USA Donald Trump hanno avuto un bilaterale dalla conclusione inverosimile. Non mi piace l'arroganza di Trump e la sua scarsa diplomazia, ma non posso che condividere le sue intenzioni di tutelare gli interessi degli americani a non essere trascinati in una guerra dagli sviluppi imprevedibili. Tuttavia l'aspetto su cui rifletto è l'impatto che questa posizione determinata degli USA, unitamente alla politica sui dazi, potrà avere sull'Europa. L'Europa come progetto politico potrebbe implodere.

L'ostinazione dei paesi Europei a trazione Tedesca e Francese di perseguire un "pace giusta" personalmente non la capisco, ovvero faccio finta di non capirla. Cosa significa "pace giusta"? La pace giusta è possibile solo quando si sconfigge militarmente il nemico, ed in questo caso mi sembra irrealizzabile perché l'aggressione Russa ha fatto acquisire a Putin territorio e quindi una posizione negoziale di forza; inoltre non mi sembra che si possa  negoziare con un Dittatore, se tale lo riteniamo. Se per "pace giusta" l'Europa, non unita, e senza il sostegno USA, intende la sconfitta militare di Putin, occorrerà allora supporre la pianificazione di un intervento diretto, con uomini e mezzi, nella guerra ucraina da parte degli eserciti europei. Ciò comporterebbe una dichiarazione di guerra alla Russia.

Non credo che la "pace giusta" l'Europa voglia e possa conseguirla con le sanzioni economiche e le forniture di armi ad oltranza(a vantaggio delle industrie militari), considerando che gli embarghi sono un esempio di inutile pressione politica perché aggirabili con operazioni triangolari. Inoltre gli embarghi contro la Russia danneggiano solo i paesi europei (ne stiamo pagando il prezzo) ma non sono efficaci contro la Russia essendo un paese ricco di risorse ed alleato con economie quali la Cina, l'India, altri paesi asiatici e sudamericani, del medio oriente ecc. Quindi decodificando il linguaggio politico della tecnocrazia europea, non potendo costruire la pace giusta con la diplomazia e le pressioni economiche, l'unica opzione è l'intervento militare.

In realtà, ed esprimo una mia opinione, i "democratici europei" una sintesi tra popolari e socialisti, in linea con le direttive dei presidenti democratici americani per finire con Joe Biden, vogliono proprio parlare di "guerra" perché la corsa al riarmo che stanno promuovendo per i prossimi 5 anni dimostra che è l'unica opzione considerata. Del resto nel marzo del 2024 Macron dichiarò: Europa deve essere pronta alla guerra se vuole la pace (https://www.rainews.it/articoli/2024/03/macron-non-esclude-linvio-di-truppe-in-ucraina-tutte-le-opzioni-sono-possibili-europa-deve-essere-pronta-alla-guerra-1eda9a14-7923-49ff-882a-19ab57256b68.html). Cosa ne pensano i pacifisti? 

Perché i leader, anche italiani, non ne parlano apertamente? Perché non avrebbero il consenso delle rispettive opinioni pubbliche, soprattutto in ordinamenti come il nostro in cui la costituzione dichiara che l'Italia ripudia la guerra. Non  escludo, anche questa prendetela come una fantasia, che le intelligence europee possano provare a creare un "casus belli" inventarsi una violazione russa dei territori europei o altro per giustificare un intervento armato davanti alle loro opinioni pubbliche facilmente manipolabili. Non dimentichiamoci che una guerra ha anche un post-guerra che si chiama ricostruzione, che in un clima di costante crisi economica sarebbe un'opportunità. Si direte che è fantapolitica, è possibile, ma la politica non è mai trasparente.

Per chiudere questa banale riflessione fantasiosa, cosa dovrebbe proporre l'Europa a Volodymyr Zelensky? L'ingresso nella NATO subito come garanzia di sicurezza, a condizione che ceda i territori occupati/conquistati dalla Russia in cambio della fine del conflitto. Questa non si chiama "pace giusta" ma negoziato per chiudere una contesa territoriale. Del resto Volodymyr Zelensky poteva evitare di bombardare i ribelli delle provincie russofane, o promulgare leggi per soffocare lo studio della lingua russa e della cultura Russa. Mi sembra che anche nella nostra europa abbiamo esempi come la Provincia del trentino (Adige)con un accordo del 1946 tra Italia ed Austria, ne è un esempio, e l'Italia ha salvaguardato la cultura e tradizione tedesca della provincia. Quindi per la pace si può cedere un territorio e rispettare la cultura e la tradizione di una popolazione frontaliera bilingua. Cosa che Volodymyr Zelensky non ha fatto. Ma l'Europa vuole la guerra. Per questo ben venga Trump con i suoi modi.




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