venerdì 16 maggio 2025

Emor

 

Emòr: Santità, servizio e trasformazione giorno per giorno

La parashà di Emòr (Levitico 21–24) si apre con un richiamo profondo alla santità del sacerdozio. I kohanìm, discendenti di Aharòn, ricevono una serie di mitzvòt che regolano la loro vita, il loro comportamento e la loro partecipazione al culto. Anche dopo la distruzione del Bet Ha-Mikdàsh, queste norme non sono scomparse: il loro spirito e molte delle loro applicazioni rimangono vive.

Come spiega, essere kohen non è solo una questione di genealogia: comporta responsabilità spirituali permanenti. La mitzvà di “ve-kidashtò” — “e lo santificherai” — è ancora in vigore oggi. I kohanìm vanno onorati pubblicamente: chiamati per primi alla lettura della Torà, coinvolti nelle benedizioni (birkàt kohanìm), e rispettati nel loro ruolo simbolico di servitori del Divino. È un onore che appartiene a tutta la comunità, come un modo per elevare chi è incaricato di servire Dio anche a nome nostro.

Una delle mitzvòt più simboliche è il divieto per i kohanìm di contaminarsi con i morti. Questo, spiega il Talmud, è un confine tra la vita e la morte, tra la presenza divina e il mondo terreno. È il tentativo di mantenere i kohanìm “vicini al Santuario”, anche in senso esistenziale.

Il testo del Levitico prosegue specificando che i kohanìm devono osservare regole di purezza, di moralità matrimoniale e di integrità fisica. Anche chi ha una malformazione è escluso dal servizio attivo, ma non dal diritto di partecipare ai pasti sacri. È un modo — tutt'altro che discriminante — di proteggere la simbologia del culto. Come ci insegna il Talmud (Megillah 24b), la dignità della persona è intatta, anche se il ruolo pubblico cambia.

Il tempo sacro e la terapia dell’Òmer

Il capitolo 23 del Levitico introduce le feste di Dio — non solo celebrazioni, ma vere e proprie “convocazioni sante”, tappe nel cammino dell’identità ebraica. Una delle più profonde è quella del conteggio dell’Òmer, il periodo tra Pesach e Shavuòt.

Qui entra l’insegnamento del documento Emor 5785, che illumina il senso del conteggio quotidiano. Il Talmud (Menachot 66a) discute se il conteggio sia biblico anche oggi. Secondo Rambam, lo è. Secondo Tosafot, no. Rabbenu Yerucham, invece, propone una via intermedia: il conteggio dei giorni è biblico, quello delle settimane solo rabbinico.

Questa distinzione diventa, nella visione chassidica, un’allegoria potente del percorso interiore umano. Le settimane rappresentano le emozioni profonde da trasformare (amore, disciplina, compassione…), mentre i giorni rappresentano la nostra capacità di scegliere come comportarci oggi, anche se dentro sentiamo ancora confusione, rabbia o paura.

È il principio spirituale della gestione del giorno: anche se non riesco a trasformare tutto il mio carattere, posso non urlare oggi, non cedere a un pensiero autodistruttivo oggi, offrire amore oggi. È qui che la mitzvà dell’Òmer diventa uno strumento di guarigione, come raccontato nella storia di John Nash: anche in presenza di deliri e sofferenze profonde, possiamo restare al timone. Anche se non riesco a contare “le settimane” (cioè a guarire tutto), posso contare “i giorni”, cioè scegliere un piccolo passo di luce.

Giustizia, parola e responsabilità

Il Levitico si conclude con un caso drammatico: un uomo bestemmia e viene lapidato. Il testo non è da leggere come una condanna fredda, ma come un segnale sull’importanza della parola. Il Talmud chiarisce che la parola crea mondi — benedice o distrugge. E i Maestri ci dicono che le punizioni erano precedute da ammonizioni, testimoni e tentativi di ravvedimento. Anche qui, il principio è educativo, non vendicativo.

Segue la legge del taglione (“occhio per occhio”), ma la tradizione rabbinica spiega chiaramente che si tratta di compensazione, non di mutilazione. L’obiettivo è sempre il Tikun, la riparazione. E questo vale anche per le emozioni: ciò che non puoi cambiare in profondità, puoi almeno raddrizzarlo nell’azione.

La santità nel quotidiano

La parashà di Emòr, vista attraverso la lente della halakhà, del Talmud e del pensiero chassidico, ci consegna un messaggio profondissimo:

  • Santificare i kohanìm oggi significa onorare chi si dedica al servizio divino e vivere noi stessi con dignità, anche senza Tempio.
  • Contare i giorni è più di un rituale: è un metodo di crescita personale, giorno dopo giorno, emozione dopo emozione.
  • Anche se non possiamo cambiare tutto, possiamo scegliere il bene oggi. E questo, secondo la Torah, basta per iniziare a trasformare il mondo.

 

domenica 11 maggio 2025

Il Genocidio degli armeni

 



Armenia, 1915. Ma il tempo non ha chiuso quella ferita

Cento anni non bastano per seppellire la verità. Il genocidio armeno – il massacro sistematico di oltre un milione e mezzo di armeni cristiani da parte dell’Impero Ottomano tra il 1915 e il 1916 – resta un crimine senza giustizia. Nonostante l’ampia documentazione, le testimonianze oculari, le foto degli ufficiali tedeschi e persino gli ordini scritti dai vertici ottomani, la Turchia moderna continua a negare. E nel 2025, quel rifiuto pesa più che mai.

Dietro la parola “negazionismo” si cela una strategia politica raffinata, radicata in un nazionalismo che non ammette colpe né memoria. È qui che storia e geopolitica si incrociano, in un labirinto di alleanze, tensioni internazionali e silenzi diplomatici. Per Ankara, il genocidio armeno non è mai esistito: le morti sarebbero state la conseguenza tragica della guerra civile e delle epidemie. Ma gli archivi – quelli turchi compresi – raccontano altro.

Negli ultimi anni, alcuni governi hanno deciso di rompere l’omertà. Gli Stati Uniti, nel 2021, hanno fatto il passo che molti attendevano da decenni: con una dichiarazione ufficiale, il presidente Biden ha usato la parola proibita, “genocidio”. Una mossa simbolica e politica, accolta con rabbia dal governo turco. Anche Germania, Francia, Italia e altri Paesi europei hanno formalizzato il loro riconoscimento. Ma a quale prezzo?

Ogni pronunciamento innesca ritorsioni: ambasciatori richiamati, rapporti economici congelati, proteste ufficiali. Il genocidio armeno è divenuto un test di coerenza per la politica estera globale. Una linea rossa che separa la diplomazia dalla verità.

Ma le ripercussioni non si fermano agli uffici dei ministeri. In Armenia, il ricordo del genocidio ha ritrovato nuova forza nel conflitto con l’Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh. Dopo la guerra del 2020 e la perdita di territori storici, molti armeni hanno avvertito un déjà-vu inquietante: la sensazione di essere di nuovo minacciati, isolati, dimenticati. Il coinvolgimento diretto della Turchia a fianco dell’Azerbaigian ha alimentato una narrativa che lega passato e presente, memoria e geopolitica. Per molti armeni, quella guerra non è solo per un lembo di terra: è il seguito mai chiuso del 1915.

Eppure, la memoria resiste. Lo fa attraverso la diaspora armena, sparsa tra Parigi, Beirut, Los Angeles, Mosca. Ogni anno, il 24 aprile, migliaia di persone sfilano con candele, immagini e cartelli per chiedere ciò che dovrebbe essere scontato: il riconoscimento. Nelle scuole, nei musei, nei teatri, nelle università, la storia del genocidio viene trasmessa come patrimonio e come missione. Perché dimenticare, dicono in molti, sarebbe come uccidere due volte.

Ma non tutti hanno il privilegio di parlare liberamente. In Turchia, chi osa pronunciare la parola “genocidio” rischia. Studiosi come Taner Akçam, uno dei pochi storici turchi ad aver rotto il silenzio, vivono sotto scorta, tra minacce e processi. Scrivere la verità, lì, è un atto di coraggio.

E allora la domanda è: perché tutto questo silenzio? Perché così pochi governi, così pochi intellettuali, così pochi giornalisti si confrontano con questa pagina della storia? La risposta è scomoda, ma necessaria. Perché riconoscere un genocidio significa incrinare alleanze, disturbare equilibri, compromettere interessi strategici.

Eppure, l’eco di quella marcia nel deserto, di quei treni piombati, di quei villaggi armeni rasi al suolo, è ancora qui. E finché non ci sarà giustizia, il genocidio armeno non apparterrà solo al passato. Apparterrà a noi.

venerdì 9 maggio 2025

Il paradosso della sinistra

 



Il paradosso della sinistra: quando i diritti si piegano all’ambiguità ideologica

Per decenni, la sinistra europea è stata il baluardo dei diritti umani, dell’internazionalismo democratico, della lotta alle disuguaglianze e alla violenza politica. Eppure, oggi, nel cuore dell’Europa — e in modo particolarmente evidente in Italia — assistiamo a una mutazione profonda: il sostegno alla causa palestinese, un tempo espresso nei toni della diplomazia e della solidarietà con i civili, si è trasformato in qualcosa di più oscuro e pericoloso. In alcuni ambienti, si è smesso di distinguere tra il popolo palestinese e Hamas, tra resistenza legittima e terrorismo brutale, tra critica a Israele e antisemitismo.

A veicolare e amplificare questa confusione sono anche settori dell’informazione cattolica e progressista, tradizionalmente vicini alla cultura della pace e del dialogo. Ma proprio qui risiede il nodo più critico: testate come Avvenire e Famiglia Cristiana, in più occasioni, hanno rilanciato narrazioni costruite da fonti parziali e spesso manipolate, come quelle diffuse da Al Jazeera. Senza un’adeguata contestualizzazione, i reportage su Gaza finiscono per dipingere un’immagine in bianco e nero del conflitto, dove Israele è sempre l’aggressore e Hamas scompare dallo scenario, assente o vittima. Un'assenza che parla più di mille parole.

Dai cortei universitari alle tavole dei ristoranti: quando il radicalismo esce dai margini

Il caso della Taverna a Santa Chiara di Napoli, che nel 2025 ha rifiutato il servizio a una famiglia israeliana, non è un semplice incidente. È un segnale d’allarme. Il fatto, apertamente discriminatorio, è stato difeso da una parte della sinistra italiana e da alcune sigle pro-Palestina, che hanno trasformato l’intolleranza in una “forma di resistenza”.

Slogan come “boicottaggio legittimo” o “l’antisionismo non è antisemitismo” sono stati ripetuti come mantra per giustificare un gesto che, in qualunque altro contesto, sarebbe stato bollato per ciò che è: odio su base etnica.

Ma questa ambiguità non è un caso isolato. La vediamo nelle università italiane ed europee, dove le occupazioni e i cortei pro-Palestina spesso finiscono per diventare vetrine di propaganda antisraeliana, in cui il confine tra attivismo e radicalizzazione si fa sempre più labile. Dove vengono inneggiati i “martiri di Gaza” ma mai citati i bambini israeliani rapiti o le donne stuprate il 7 ottobre. È un silenzio colpevole, amplificato e avallato da una parte dell'informazione che ha smesso di interrogarsi sulle fonti.

Quando la sinistra diventa un cavallo di Troia

In nome di una battaglia contro “l’imperialismo”, si chiude un occhio — o entrambi — su attentati, rapimenti, massacri di civili. Si tace, o peggio si giustifica, il terrorismo di Hamas, considerato un “atto estremo ma comprensibile”. È il trionfo del relativismo morale, della deriva ideologica che trasforma il diritto alla sicurezza in un privilegio borghese e la violenza in uno strumento politico accettabile — purché rivolto verso l’“oppressore”.

Così facendo, la sinistra traduce la propria storia di lotta per i diritti in una parodia crudele, in cui la discriminazione antiebraica diventa tollerabile se mascherata da militanza, e in cui l’infiltrazione islamista in associazioni, circoli studenteschi e ONG viene ignorata nel nome del “dialogo interculturale”.

Le conseguenze della complicità ideologica

  1. L’odio normalizzato
    Quando si accetta la narrazione di Hamas o si legittimano attacchi contro civili come risposta politica, si finisce per normalizzare l’odio come strumento di lotta. Le intifade, gli attentati suicidi, le esecuzioni sommarie non vengono più condannate: vengono spiegate, comprese, persino romanticizzate.

  2. La fine della credibilità democratica
    Sostenere chi discrimina e chi minaccia lo Stato di diritto significa allontanarsi dai valori progressisti. La sinistra perde presa sui ceti popolari, spaventati da un’identità che sembra più vicina a Gaza City che a Piazza dei Cinquecento. Si scivola in una dimensione minoritaria, autoreferenziale, in cui l’ideologia conta più della realtà.

  3. L’apertura alla radicalizzazione
    Molte sigle pro-palestinesi che sfilano nelle piazze europee non sono associazioni umanitarie, ma vere e proprie ramificazioni culturali — e in alcuni casi logistiche — di reti estremiste. Aderire acriticamente a queste realtà significa aprire le porte a una radicalizzazione reale, non solo ideologica ma anche operativa, che può sfociare in violenza urbana, antisemitismo militante e instabilità sociale.

La democrazia sotto attacco: un rischio emulativo

Il problema non si ferma alla questione palestinese. Se l’Occidente si mostra disposto a cedere politicamente e culturalmente alla pressione della violenza organizzata, altri gruppi — separatisti, identitari, etnonazionalisti — potrebbero replicare lo schema.
La lezione che se ne trae è pericolosa: “basta essere abbastanza violenti, mediatici e vittimisti per entrare nel dibattito democratico”. In questo modo, la democrazia viene usata come trampolino per la propria distruzione.

Una chiamata alla responsabilità

La sinistra, se vuole tornare ad avere un ruolo credibile nel XXI secolo, deve ritrovare il coraggio di distinguere tra la causa e il metodo.
Sostenere la dignità del popolo palestinese non può significare giustificare chi lo opprime dall’interno — come Hamas — e ancor meno usare la sua causa per sdoganare odio, violenza e fanatismo.

Non esiste progresso senza sicurezza.
Non esiste giustizia che tolleri il terrorismo.
E non esiste sinistra che possa dirsi democratica se smette di condannare ogni forma di violenza politica.

Perché chi oggi tollera, giustifica o silenzia, domani sarà complice

Parashà Acharè Mot

 


Un viaggio di ritorno verso la santità

Immagina di entrare nel luogo più sacro della tua anima, un angolo segreto dove solo tu e Dio potete incontrarvi. È lì che inizia la Parashà Acharè Mot. Dopo la tragedia dei figli di Aronne, Dio insegna a Mosè come il Sommo Sacerdote potrà, una sola volta all’anno, varcare la soglia del Santo dei Santi. Questo momento unico si chiama Yom Kippur, il Giorno dell’Espiazione. Ma non è solo un rito antico: il Talmud (Yomà 85b) ci ricorda che il perdono arriva solo a chi è disposto a pentirsi davvero. Ecco il cuore della teshuvà: non solo parole, ma verità, coraggio e cambiamento.

Nel nostro tempo, Yom Kippur diventa un simbolo vivo. Ognuno ha un suo “Santo dei Santi” interiore: è lì che ci confrontiamo con i nostri errori, cerchiamo il perdono, e proviamo a rialzarci migliori. Non serve un altare fisico, serve autenticità.

Quando il sacro si fa etica

Nel capitolo successivo, la Torà insegna che i sacrifici non possono essere fatti ovunque, né con qualsiasi intento. Il sangue, fonte della vita, è sacro. Il Talmud (Menachot 110a) paragona oggi lo studio della Torà ai sacrifici antichi: lo studio e la preghiera diventano i nostri strumenti di connessione con il divino.

Ma c’è di più: siamo chiamati a non disperdere la nostra spiritualità tra mille idoli moderni. Non si tratta solo di statue: oggi gli idoli sono la carriera, l’apparenza, il successo a tutti i costi. Il sangue – la vita – non va sprecata. Ogni azione deve onorare la vita, nostra e degli altri.

Sacralità dei legami

Il capitolo 18 propone un codice etico molto preciso sulla sessualità. Non per reprimere, ma per elevare. La relazione è vista come luogo di dignità e santità. Il Talmud (Nedarim 20a) ci insegna che anche l’intimità ha bisogno di consapevolezza e rispetto.

Nel mondo di oggi, dove tutto è veloce, esposto e spesso svuotato di significato, questo messaggio risuona come un invito a recuperare la bellezza dei legami veri. La sessualità non è disgiunta dalla spiritualità: è un linguaggio dell’anima.

Distruggere gli idoli… interiori

“Non fatevi dei con il metallo fuso”, dice la Torà. Un comandamento che parla oggi più che mai. Perché il “metallo fuso” sono le nostre certezze rigide, le idee preconfezionate, le zone di comfort da cui non vogliamo uscire. Il Talmud (Avodà Zara 55a) ci avverte: non è l’idolo che è pericoloso, ma il pensiero che lo sostiene.

Dio non vuole che ci inchiniamo a convinzioni che non possiamo mettere in discussione. La fede vera è viva, aperta, disposta a cambiare. Ogni rigidità mentale, anche religiosa, può diventare una forma sottile di idolatria.

Contare i giorni per costruirsi

Durante i 49 giorni dell’Omer, tra Pesach e Shavuòt, ci viene chiesto di contare. Giorno dopo giorno, come chi semina con pazienza per vedere crescere qualcosa dentro di sé. Dal cibo degli animali (orzo) al pane degli uomini (grano), il messaggio è chiaro: diventa umano, consapevole, elevato.

Il Talmud (Menachot 66a) ci ricorda che ogni giorno è un gradino verso la maturità spirituale. Possiamo scegliere di usare questi giorni per migliorarci, aggiustare un tratto del carattere, chiedere scusa, o semplicemente… diventare più gentili.

Imparare a vedere il bene negli altri

Tra le mitzvòt più difficili, ce n’è una che è anche tra le più urgenti: giudicare favorevolmente. Pirkei Avot (1:6) ci esorta a dare il beneficio del dubbio. Quante relazioni rovinate da un sospetto? Quanti malintesi, quante parole non dette o travisate?

In un’epoca in cui il giudizio è istantaneo – nei social, al lavoro, persino tra amici – ricordarci che non conosciamo mai tutta la storia è un atto di grande saggezza e amore. Saper perdonare, anche quando è difficile, ci rende più umani e più divini.

La gioia che illumina il buio

Lag Ba’Omer arriva come una scintilla nel buio. In mezzo al lutto della Sefirà, si accende la luce di Rabbi Shimon bar Yochai, maestro dello Zohar. Non è un giorno qualsiasi: è una celebrazione della luce spirituale che resiste alle tenebre del mondo.

Anche oggi, ballare, cantare, accendere un fuoco può essere un atto sacro. È la resilienza della gioia, quella che non finge che il male non esista, ma sceglie di vedere la luce anche nei momenti difficili.

Conclusione: la santità come vocazione quotidiana

In fondo, tutto questo percorso – dalla Parashà Acharè Mot alla sefiràt HaOmer, fino a Lag Ba’Omer – è un invito a vivere con kedushà, cioè con consapevolezza e profondità. Come dice il Talmud (Berachot 17a), è beato chi lascia questo mondo con la Torà nel cuore, la bontà nelle mani e l’umiltà nell’anima.

Essere kadosh – santo – non significa essere perfetto. Significa cercare ogni giorno di diventarlo un po’ di più.

domenica 4 maggio 2025

Il terrorismo islamico in Europa/Islamic Terrorism in Europe




Terrorismo islamico in Europa: il rischio della legittimazione e le crepe nella sicurezza democratica

Nel cuore dell’Europa si agita una minaccia che da anni mina la stabilità e la coesione sociale del continente: il terrorismo islamico. Non si tratta solo di attentati o di cellule dormienti, ma di un rischio più profondo e insidioso: la progressiva legittimazione politica di attori e ideologie radicali, sotto la spinta di una retorica ideologica e disinformata.

Negli ultimi mesi, alcuni governi europei hanno espresso l’intenzione di riconoscere lo Stato di Palestina, talvolta aprendo al dialogo con Hamas come interlocutore politico. Una scelta che, nelle intenzioni ufficiali, dovrebbe favorire la soluzione dei “due popoli due Stati”. Ma che, in concreto, rischia di produrre effetti devastanti per l’Europa stessa.

Riconoscere un'entità che non si fonda su un processo di reciproco riconoscimento, e che al suo interno continua a legittimare la resistenza armata e il rifiuto dell’esistenza di Israele, significa inviare un messaggio chiaro: la violenza paga. Hamas, nella sua Carta fondativa del 1988, definisce Israele un’entità da eliminare e invoca la jihad come strumento politico e religioso. Anche il documento del 2017, spesso citato come segnale di moderazione, non riconosce Israele né rinuncia alla lotta armata. La sua ideologia resta ancorata a una visione teocratica, irriducibile e militarizzata.

Il rischio è quello di normalizzare il terrorismo come strumento di pressione politica. Legittimare Hamas equivale a premiare strategie fondate sull’attacco sistematico alla convivenza, sul sabotaggio della diplomazia e sull’uso del terrore come mezzo di negoziazione. E questo, in una Europa già scossa da tensioni identitarie e radicalizzazioni crescenti, potrebbe rappresentare un colpo alla tenuta democratica interna.

Nel frattempo, il terrorismo jihadista muta pelle. In Spagna, cresce nei penitenziari e nelle periferie abbandonate, alimentato da disagio sociale e propaganda digitale. In Francia, le autorità hanno sventato 45 attentati nel solo 2023, mentre giovani radicalizzati cresciuti nelle banlieue diventano il nuovo volto del jihadismo domestico. In Germania, il pericolo è legato all’ISPK (Stato Islamico della Provincia di Khorasan) e alla “scena islamista nordcaucasica”, con cellule che progettano attacchi coordinati, come quello sventato al Duomo di Colonia, o attentati ai mercatini di Natale.

In Inghilterra, persino l’arte è finita sotto il mirino dell’antiterrorismo, come nel caso del gruppo rap Kneecap, accusato di sovversione. La linea che separa dissenso e pericolo, espressione e minaccia, si fa sempre più sottile. Ma proprio in questa ambiguità si nasconde il nuovo volto della radicalizzazione: meno appariscente, più ideologica, più capace di insinuarsi nei vuoti della politica e della cultura.

Oggi il jihadismo non si limita a colpire con le armi, ma cerca legittimazione politica, riconoscimento pubblico, spazio nei processi decisionali. E l’Europa, nel suo tentativo di mediazione o di consenso, rischia di indebolire se stessa.

La domanda è urgente: fino a che punto è possibile dialogare con chi rifiuta il dialogo? E quanto può resistere una democrazia che tollera il terrorismo sotto l’abito della causa nazionale?

Nel momento in cui si apre alla legittimazione di chi rifiuta l’esistenza dell’altro, non si costruisce la pace: si mina la sicurezza. E l’Europa, se vuole restare fedele ai suoi valori, dovrà deciderlo chiaramente.

 

Islamic Terrorism in Europe: The Risk of Legitimization and Cracks in Democratic Security

At the heart of Europe, a threat has long been undermining the continent’s stability and social cohesion: Islamic terrorism. It’s not just about attacks or dormant cells, but about a deeper and more insidious risk—the progressive political legitimization of radical actors and ideologies, driven by ideological and misinformed rhetoric.

In recent months, some European governments have expressed their intention to recognize the State of Palestine, at times even opening dialogue with Hamas as a political interlocutor. Officially, such moves are presented as steps toward the “two states for two peoples” solution. But in reality, they risk having devastating consequences for Europe itself.

Recognizing an entity not founded on mutual recognition, and which internally continues to legitimize armed resistance and deny Israel’s existence, sends a clear message: violence pays. Hamas, in its founding charter of 1988, defines Israel as an entity to be eliminated and calls for jihad as a political and religious tool. Even the 2017 document—often cited as a sign of moderation—does not recognize Israel or renounce armed struggle. Its ideology remains anchored in a theocratic, intransigent, and militarized vision.

The risk is the normalization of terrorism as a tool of political pressure. Legitimizing Hamas is equivalent to rewarding strategies based on the systematic attack on coexistence, the sabotage of diplomacy, and the use of terror as a negotiating tactic. And in a Europe already shaken by identity tensions and growing radicalization, this could deal a severe blow to internal democratic stability.

Meanwhile, jihadist terrorism is evolving. In Spain, it is growing within prisons and neglected suburbs, fueled by social unrest and digital propaganda. In France, authorities thwarted 45 attacks in 2023 alone, while radicalized youths from the banlieues have become the new face of domestic jihadism. In Germany, the threat is linked to ISPK (Islamic State–Khorasan Province) and the "North Caucasian Islamist scene," with cells planning coordinated attacks—such as the one foiled at Cologne Cathedral—or plotting assaults on Christmas markets.

In the UK, even art has come under the scrutiny of counterterrorism, as seen in the case of the rap group Kneecap, accused of subversive activity. The line between dissent and danger, expression and threat, is becoming increasingly blurred. And it is in this ambiguity that the new face of radicalization hides: less overt, more ideological, and more capable of infiltrating the voids of politics and culture.

Today, jihadism does not limit itself to violence—it seeks political legitimacy, public recognition, and a role in decision-making processes. And in its attempt to mediate or appease, Europe risks weakening itself.

The question is urgent: how far can one go in dialoguing with those who reject dialogue? And how long can a democracy survive if it tolerates terrorism under the guise of a national cause?

When legitimacy is granted to those who deny the existence of others, peace is not built—security is undermined. And if Europe wishes to remain true to its values, it must make that choice clear.


Il terrorismo palestinese /The Forgotten Attacks: When Palestinian Terrorism Targeted Europe

 


 

 Gli attentati dimenticati: quando il terrorismo palestinese colpiva l’Europa

Dalla fondazione dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nel 1964, l'Europa ha vissuto diverse fasi di minaccia terroristica di matrice islamista. Inizialmente, gli attacchi erano orchestrati da gruppi organizzati come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e Settembre Nero. Negli ultimi anni, invece, si è assistito a una crescente incidenza di attacchi perpetrati da singoli individui radicalizzati, spesso ispirati dalla propaganda jihadista online.

  • 1972, Monaco di Baviera: 11 atleti israeliani uccisi da Settembre Nero alle Olimpiadi.
  • 1973, Fiumicino (Italia): 34 morti in un attacco del FPLP all’aeroporto.
  • 1976, Entebbe (dirottamento aereo): ostaggi ebrei selezionati e separati dagli altri passeggeri.
  • 1982, Roma: un bambino ucciso e decine di feriti all’uscita dalla sinagoga.
  • 1985, Fiumicino e Vienna: 19 morti in attacchi coordinati del gruppo Abu Nidal.

Dall’organizzazione al lupo solitario: la minaccia continua

Oggi gli attentati non arrivano più solo dai gruppi strutturati. Negli ultimi dieci anni, una nuova ondata di terrorismo ha colpito l’Europa: quella dei singoli individui radicalizzati, spesso immigrati o figli di immigrati musulmani, cresciuti in Europa e radicalizzati online o nelle moschee.

Attacchi terroristici in Europa da parte di individui radicalizzati

Negli ultimi anni, l'Europa ha assistito a una serie di attacchi terroristici compiuti da singoli individui radicalizzati, spesso ispirati dalla propaganda jihadista online. Questi attacchi, definiti "low cost" per la loro semplicità e imprevedibilità, hanno colpito diverse città europee.

Alcuni esempi:

Francia

  • Nizza, Francia (14 luglio 2016): Durante le celebrazioni della festa nazionale, un uomo ha guidato un camion sulla folla lungo la Promenade des Anglais, uccidendo 86 persone e ferendone oltre 400. L'attacco è stato rivendicato dallo Stato Islamico
  • Assassinio di Samuel Paty (16 ottobre 2020): Un insegnante di storia è stato decapitato a Éragny da un giovane ceceno radicalizzato, dopo aver mostrato in classe caricature di Maometto durante una lezione sulla libertà di espressione.
  • Attentato al liceo di Arras (13 ottobre 2023): Un ex studente radicalizzato ha accoltellato a morte un insegnante e ferito altre persone all'interno di un liceo.

Germania

  • Berlino, Germania (19 dicembre 2016): Un camion è stato lanciato contro il mercatino di Natale a Breitscheidplatz, causando 12 morti e 56 feriti. L'attentatore, un tunisino radicalizzato, è stato ucciso dalla polizia italiana alcuni giorni dopo.
  • Attacco a Solingen (23 agosto 2024): Un siriano di 26 anni ha accoltellato tre persone durante una festa locale, uccidendole. L'attacco è stato rivendicato dallo Stato Islamico.
  • Attacco a Mannheim (maggio 2024): Un poliziotto è stato pugnalato a morte durante un controllo di routine.

Belgio, Olanda, Svezia: decine di attacchi falliti o sventati da individui con profilo jihadista.

Stoccolma, Svezia (7 aprile 2017):

Un uomo ha guidato un camion contro i pedoni in una zona commerciale, uccidendo cinque persone e ferendone 15. L'attacco è stato attribuito a un richiedente asilo uzbeko radicalizzato

Londra, Regno Unito (3 giugno 2017): Un furgone è stato utilizzato per investire pedoni sul London Bridge, seguito da un attacco con coltelli al Borough Market. Otto persone sono state uccise e 48 ferite

Austria

Attacco a Vienna (2 novembre 2020): Un attentatore ha aperto il fuoco in diverse zone del centro città, uccidendo quattro persone e ferendone altre 23. L'attacco è stato rivendicato dallo Stato Islamico.

Attacchi con veicoli: la nuova strategia del terrore

Una delle tattiche più devastanti adottate dai terroristi negli ultimi anni è l'uso di veicoli per investire deliberatamente civili. Questi attacchi, spesso perpetrati da singoli individui radicalizzati, hanno causato numerose vittime in diverse città europee.

Tutti questi episodi sono legati da un filo comune: il rifiuto violento della cultura occidentale e dei suoi valori, mascherato da atti isolati ma chiaramente ispirati a una visione totalitaria dell’Islam.

Negli ultimi anni, l'Italia ha assistito a diversi episodi di violenza perpetrati da individui di origine islamica, spesso radicalizzati, che hanno utilizzato coltelli o altri oggetti contundenti per attaccare civili o forze dell'ordine. Sebbene molti di questi attacchi non siano stati formalmente rivendicati da organizzazioni terroristiche, le modalità e le motivazioni suggeriscono una matrice jihadista o comunque ispirata all'estremismo islamico.

Attacchi con coltello in Italia attribuiti a individui radicalizzati

Torino, aprile 2019
Un cittadino senegalese di 26 anni, Ndiaye Migui, ha aggredito due poliziotti al grido di "Allah Akbar". L'uomo, già destinatario di due provvedimenti di espulsione, aveva precedentemente rifiutato di farsi identificare e aveva aggredito un vigilante con una sbarra di ferro. È stato arrestato con l'accusa di tentato omicidio

Roma, aprile 2019
Un altro episodio simile si è verificato nella capitale, dove un immigrato musulmano ha aggredito passanti con un coltello, inneggiando ad Allah e insultando la fede cristiana. Anche in questo caso, l'aggressore è stato arrestato dalle forze dell'ordine.

Milano, ottobre 2023
Due uomini egiziani sono stati arrestati con l'accusa di essere membri dell'ISIS, pochi giorni dopo che un altro egiziano aveva accoltellato diverse persone nel capoluogo lombardo, in risposta agli attacchi israeliani su Gaza. Questi episodi hanno sollevato preoccupazioni riguardo alla presenza di cellule radicalizzate sul territorio italiano.

Sebbene l'Italia non abbia subito attacchi terroristici su larga scala come quelli avvenuti in altri paesi europei, questi episodi evidenziano la presenza di individui radicalizzati pronti a compiere atti violenti. Le autorità italiane continuano a monitorare attentamente la situazione, cercando di prevenire ulteriori attacchi attraverso l'intelligence e la cooperazione internazionale.

Evoluzione della minaccia

Secondo Europol, la maggior parte degli attentati terroristici nell'UE sono compiuti da estremisti solitari, spesso radicalizzati attraverso contenuti online. Questi individui, pur agendo da soli, sono spesso influenzati da reti di propaganda ben organizzate.

Conclusione: riconoscere cosa, e a quale prezzo?

Il riconoscimento dello “Stato di Palestina” in questo momento, senza condizioni, senza reciprocità e sotto la pressione di una minoranza ideologizzata e spesso ostile all’identità europea, rappresenta una resa morale, diplomatica e culturale. Non si tratta di pace. Si tratta di sottomissione strategica.

L’Europa, culla di diritti, si sta piegando non per convinzione, ma per timore. E nel farlo, non solo non avvicina la pace, ma legittima il terrorismo, indebolisce Israele e si consegna a chi non riconosce nemmeno il suo stesso diritto di esistere.

L'occultamento linguistico: quando “islamico” diventa impronunciabile

Eppure, davanti a questa lunga sequenza di attacchi, emerge un altro dato inquietante: la sistematica riluttanza da parte di molti media europei a usare il termine “islamico” per descrivere la matrice ideologica degli attentatori. Negli articoli di cronaca e nei lanci delle agenzie, si preferisce parlare di “uomini armati”, “squilibrati”, “lupi solitari” o “profili a rischio”, mentre la motivazione religiosa – quando pure confermata dalle indagini – viene minimizzata o omessa del tutto.

Questa censura semantica, che si presenta come forma di prudenza o di rispetto multiculturale, ha l’effetto paradossale di disinformare l’opinione pubblica, oscurando il movente ideologico e impedendo un dibattito lucido su una minaccia reale. Si evita il termine “islamico” anche quando gli attentatori gridano “Allahu Akbar” durante gli attacchi, lasciano messaggi di fedeltà all’ISIS o confessano esplicitamente di aver agito “per la causa”.

In realtà, questa reticenza riflette il clima di paura che aleggia nella narrazione occidentale: paura di essere etichettati come islamofobi, paura di provocare tensioni sociali, paura di dire una verità scomoda. Ma non si combatte un’ideologia violenta nascondendola dietro eufemismi. Al contrario: solo chiamandola per nome si può disinnescarla.

In questo contesto, la scelta di riconoscere politicamente uno “Stato” che ospita o tollera attori come Hamas, e di farlo sotto la pressione delle piazze radicalizzate, è un gesto che non nasce da un’idea di pace, ma da un clima di paura culturale e complicità ideologica.

Conclusione

L'Europa continua a fronteggiare una minaccia terroristica in evoluzione, con attacchi sempre più imprevedibili e compiuti da singoli individui radicalizzati. La risposta delle autorità si concentra sulla prevenzione della radicalizzazione e sul monitoraggio delle reti di propaganda online, tuttavia davanti al processo culturale di islamizzazione non sarà sufficiente.

 

 

 

The Forgotten Attacks: When Palestinian Terrorism Targeted Europe

Since the founding of the Palestine Liberation Organization (PLO) in 1964, Europe has gone through several phases of Islamist-inspired terrorist threats. Initially, attacks were orchestrated by organized groups such as the Popular Front for the Liberation of Palestine (PFLP) and Black September. In recent years, however, there has been a growing trend of attacks carried out by radicalized lone individuals, often inspired by online jihadist propaganda.

  • 1972, Munich: 11 Israeli athletes killed by Black September during the Olympic Games.
  • 1973, Fiumicino (Italy): 34 dead in a PFLP attack at the airport.
  • 1976, Entebbe (Plane Hijacking): Jewish hostages selected and separated from other passengers.
  • 1982, Rome: A child killed and dozens injured outside the synagogue.
  • 1985, Fiumicino and Vienna: 19 dead in coordinated attacks by the Abu Nidal group.

From Organizations to Lone Wolves: The Threat Persists

Today, terrorist attacks no longer come only from structured groups. Over the past decade, a new wave of terrorism has hit Europe: attacks by radicalized individuals, often Muslim immigrants or second-generation youth, raised in Europe and radicalized online or in certain mosques.

Terrorist Attacks in Europe by Radicalized Individuals

In recent years, Europe has witnessed a series of terrorist attacks carried out by radicalized lone actors, often inspired by online jihadist propaganda. These "low-cost" attacks are known for their simplicity and unpredictability, targeting various European cities.

Examples include:

France

  • Nice (July 14, 2016): During Bastille Day celebrations, a man drove a truck into the crowd along the Promenade des Anglais, killing 86 and injuring over 400. Claimed by ISIS.
  • Samuel Paty’s murder (October 16, 2020): A history teacher was beheaded in Éragny by a radicalized Chechen youth after showing cartoons of Muhammad during a class on freedom of expression.
  • Arras School Attack (October 13, 2023): A former student stabbed a teacher to death and wounded others inside a high school.

Germany

  • Berlin (December 19, 2016): A truck was driven into a Christmas market in Breitscheidplatz, killing 12 and injuring 56. The attacker, a radicalized Tunisian, was later shot by Italian police.
  • Solingen Attack (August 23, 2024): A 26-year-old Syrian stabbed three people to death at a local festival. Claimed by ISIS.
  • Mannheim Attack (May 2024): A police officer was fatally stabbed during a routine check.

Belgium, Netherlands, Sweden
Dozens of attacks failed or were thwarted involving individuals with jihadist profiles.

  • Stockholm (April 7, 2017): A man drove a truck into pedestrians in a shopping district, killing five and injuring 15. The attacker was a radicalized Uzbek asylum seeker.
  • London (June 3, 2017): A van was used to run over pedestrians on London Bridge, followed by a stabbing spree at Borough Market. Eight killed and 48 injured.

Austria

  • Vienna (November 2, 2020): A gunman opened fire in various city center locations, killing four and injuring 23. Claimed by ISIS.

Vehicle Attacks: The New Strategy of Terror

One of the most devastating tactics adopted in recent years has been the deliberate use of vehicles to mow down civilians. These attacks, often carried out by radicalized lone individuals, have resulted in numerous casualties in various European cities.

All these incidents share a common thread: a violent rejection of Western culture and values, disguised as isolated acts but clearly inspired by a totalitarian vision of Islam.

Italy: A Rising Concern

In recent years, Italy has also witnessed several violent episodes perpetrated by individuals of Islamic origin, often radicalized, who used knives or blunt objects to attack civilians or law enforcement. Although many of these attacks have not been formally claimed by terrorist organizations, the methods and motivations suggest a jihadist or Islamist extremist influence.

Knife Attacks in Italy by Radicalized Individuals

  • Turin, April 2019
    A 26-year-old Senegalese man, Ndiaye Migui, attacked two police officers shouting “Allahu Akbar.” Previously targeted for deportation, he had also assaulted a security guard with an iron bar.
    He was arrested and charged with attempted murder.
  • Rome, April 2019
    A Muslim immigrant attacked passersby with a knife, invoking Allah and insulting the Christian faith.
    He was subdued and arrested by police.
  • Milan, October 2023
    Two Egyptian men were arrested for ISIS affiliation, days after another Egyptian man stabbed several people in Milan in retaliation for Israeli strikes on Gaza. These episodes raised concerns about the presence of radicalized cells in Italy.

While Italy has not suffered large-scale attacks like those in other European countries, these incidents highlight the presence of radicalized individuals ready to commit acts of violence. Italian authorities continue to closely monitor the situation through intelligence and international cooperation.

Evolution of the Threat

According to Europol, most terrorist attacks in the EU are carried out by lone extremists, often radicalized via online content. Though acting alone, they are usually influenced by well-structured propaganda networks.

Conclusion: What Are We Recognizing, and at What Cost?

The recognition of a “State of Palestine” at this moment—unconditionally, without reciprocity, and under pressure from an ideologically motivated and often hostile minority—represents a moral, diplomatic, and cultural surrender. This is not peace. It is strategic submission.

Europe, cradle of rights, is bowing not out of conviction, but out of fear. And in doing so, it does not bring peace any closer. Instead, it legitimizes terrorism, weakens Israel, and yields to those who do not even recognize Europe's own right to exist.

The Language Veil: When “Islamic” Becomes Unspeakable

Amid this long list of attacks, another troubling trend emerges: the systematic reluctance of many European media outlets to use the word “Islamic” to describe the ideological background of the attackers. News articles and wire reports prefer terms like “armed men,” “disturbed individuals,” “lone wolves,” or “at-risk profiles,” while the religious motivation—though confirmed by investigations—is often downplayed or entirely omitted.

This semantic censorship, presented as caution or multicultural sensitivity, paradoxically misinforms the public, conceals the ideological motive, and prevents a clear discussion of a very real threat. The term “Islamic” is avoided even when attackers shout “Allahu Akbar,” leave pledges of loyalty to ISIS, or explicitly state they acted “for the cause.”

In reality, this reluctance reflects the climate of fear hanging over Western narratives: fear of being labeled Islamophobic, fear of sparking social tensions, fear of stating an inconvenient truth. But a violent ideology cannot be countered by hiding it behind euphemisms. Quite the opposite: only by naming it can we begin to dismantle it.

Final Thoughts

Europe continues to face an evolving terrorist threat, with increasingly unpredictable attacks carried out by radicalized individuals. While authorities focus on preventing radicalization and monitoring online propaganda networks, these efforts alone are insufficient against a broader process of cultural Islamization.

Recognizing a "state" that tolerates or shelters actors like Hamas—under pressure from radicalized street movements—is not an act of peace, but one born from cultural fear and ideological complicity.

 

 

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