Immagina di
entrare nel luogo più sacro della tua anima, un angolo segreto dove solo tu e
Dio potete incontrarvi. È lì che inizia la Parashà Acharè Mot. Dopo la tragedia
dei figli di Aronne, Dio insegna a Mosè come il Sommo Sacerdote potrà, una sola
volta all’anno, varcare la soglia del Santo dei Santi. Questo momento unico si
chiama Yom Kippur, il Giorno dell’Espiazione. Ma non è solo un rito
antico: il Talmud (Yomà 85b) ci ricorda che il perdono arriva solo a chi è
disposto a pentirsi davvero. Ecco il cuore della teshuvà: non solo parole,
ma verità, coraggio e cambiamento.
Nel nostro
tempo, Yom Kippur diventa un simbolo vivo. Ognuno ha un suo “Santo dei Santi”
interiore: è lì che ci confrontiamo con i nostri errori, cerchiamo il perdono,
e proviamo a rialzarci migliori. Non serve un altare fisico, serve autenticità.
Quando il sacro si fa etica
Nel capitolo
successivo, la Torà insegna che i sacrifici non possono essere fatti ovunque,
né con qualsiasi intento. Il sangue, fonte della vita, è sacro. Il Talmud
(Menachot 110a) paragona oggi lo studio della Torà ai sacrifici antichi:
lo studio e la preghiera diventano i nostri strumenti di connessione con il
divino.
Ma c’è di
più: siamo chiamati a non disperdere la nostra spiritualità tra mille idoli
moderni. Non si tratta solo di statue: oggi gli idoli sono la carriera,
l’apparenza, il successo a tutti i costi. Il sangue – la vita – non va
sprecata. Ogni azione deve onorare la vita, nostra e degli altri.
Sacralità dei legami
Il capitolo
18 propone un codice etico molto preciso sulla sessualità. Non per reprimere,
ma per elevare. La relazione è vista come luogo di dignità e santità. Il Talmud
(Nedarim 20a) ci insegna che anche l’intimità ha bisogno di consapevolezza e
rispetto.
Nel mondo di
oggi, dove tutto è veloce, esposto e spesso svuotato di significato, questo
messaggio risuona come un invito a recuperare la bellezza dei legami veri. La
sessualità non è disgiunta dalla spiritualità: è un linguaggio dell’anima.
Distruggere gli idoli… interiori
“Non fatevi
dei con il metallo fuso”, dice la Torà. Un comandamento che parla oggi più che
mai. Perché il “metallo fuso” sono le nostre certezze rigide, le idee preconfezionate,
le zone di comfort da cui non vogliamo uscire. Il Talmud (Avodà Zara 55a) ci
avverte: non è l’idolo che è pericoloso, ma il pensiero che lo sostiene.
Dio non
vuole che ci inchiniamo a convinzioni che non possiamo mettere in discussione.
La fede vera è viva, aperta, disposta a cambiare. Ogni rigidità mentale, anche
religiosa, può diventare una forma sottile di idolatria.
Contare i giorni per costruirsi
Durante i 49
giorni dell’Omer, tra Pesach e Shavuòt, ci viene chiesto di contare.
Giorno dopo giorno, come chi semina con pazienza per vedere crescere qualcosa
dentro di sé. Dal cibo degli animali (orzo) al pane degli uomini (grano), il
messaggio è chiaro: diventa umano, consapevole, elevato.
Il Talmud
(Menachot 66a) ci ricorda che ogni giorno è un gradino verso la maturità
spirituale. Possiamo scegliere di usare questi giorni per migliorarci,
aggiustare un tratto del carattere, chiedere scusa, o semplicemente… diventare
più gentili.
Imparare a vedere il bene negli altri
Tra le
mitzvòt più difficili, ce n’è una che è anche tra le più urgenti: giudicare
favorevolmente. Pirkei Avot (1:6) ci esorta a dare il beneficio del dubbio.
Quante relazioni rovinate da un sospetto? Quanti malintesi, quante parole non
dette o travisate?
In un’epoca
in cui il giudizio è istantaneo – nei social, al lavoro, persino tra amici –
ricordarci che non conosciamo mai tutta la storia è un atto di grande
saggezza e amore. Saper perdonare, anche quando è difficile, ci rende più umani
e più divini.
La gioia che illumina il buio
Lag Ba’Omer
arriva come una scintilla nel buio. In mezzo al lutto della Sefirà, si accende
la luce di Rabbi Shimon bar Yochai, maestro dello Zohar. Non è un giorno
qualsiasi: è una celebrazione della luce spirituale che resiste alle
tenebre del mondo.
Anche oggi,
ballare, cantare, accendere un fuoco può essere un atto sacro. È la
resilienza della gioia, quella che non finge che il male non esista, ma sceglie
di vedere la luce anche nei momenti difficili.
Conclusione: la santità come vocazione quotidiana
In fondo,
tutto questo percorso – dalla Parashà Acharè Mot alla sefiràt HaOmer, fino a
Lag Ba’Omer – è un invito a vivere con kedushà, cioè con consapevolezza
e profondità. Come dice il Talmud (Berachot 17a), è beato chi lascia questo
mondo con la Torà nel cuore, la bontà nelle mani e l’umiltà nell’anima.
Essere
kadosh – santo – non significa essere perfetto. Significa cercare ogni
giorno di diventarlo un po’ di più.
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