venerdì 9 maggio 2025

Parashà Acharè Mot

 


Un viaggio di ritorno verso la santità

Immagina di entrare nel luogo più sacro della tua anima, un angolo segreto dove solo tu e Dio potete incontrarvi. È lì che inizia la Parashà Acharè Mot. Dopo la tragedia dei figli di Aronne, Dio insegna a Mosè come il Sommo Sacerdote potrà, una sola volta all’anno, varcare la soglia del Santo dei Santi. Questo momento unico si chiama Yom Kippur, il Giorno dell’Espiazione. Ma non è solo un rito antico: il Talmud (Yomà 85b) ci ricorda che il perdono arriva solo a chi è disposto a pentirsi davvero. Ecco il cuore della teshuvà: non solo parole, ma verità, coraggio e cambiamento.

Nel nostro tempo, Yom Kippur diventa un simbolo vivo. Ognuno ha un suo “Santo dei Santi” interiore: è lì che ci confrontiamo con i nostri errori, cerchiamo il perdono, e proviamo a rialzarci migliori. Non serve un altare fisico, serve autenticità.

Quando il sacro si fa etica

Nel capitolo successivo, la Torà insegna che i sacrifici non possono essere fatti ovunque, né con qualsiasi intento. Il sangue, fonte della vita, è sacro. Il Talmud (Menachot 110a) paragona oggi lo studio della Torà ai sacrifici antichi: lo studio e la preghiera diventano i nostri strumenti di connessione con il divino.

Ma c’è di più: siamo chiamati a non disperdere la nostra spiritualità tra mille idoli moderni. Non si tratta solo di statue: oggi gli idoli sono la carriera, l’apparenza, il successo a tutti i costi. Il sangue – la vita – non va sprecata. Ogni azione deve onorare la vita, nostra e degli altri.

Sacralità dei legami

Il capitolo 18 propone un codice etico molto preciso sulla sessualità. Non per reprimere, ma per elevare. La relazione è vista come luogo di dignità e santità. Il Talmud (Nedarim 20a) ci insegna che anche l’intimità ha bisogno di consapevolezza e rispetto.

Nel mondo di oggi, dove tutto è veloce, esposto e spesso svuotato di significato, questo messaggio risuona come un invito a recuperare la bellezza dei legami veri. La sessualità non è disgiunta dalla spiritualità: è un linguaggio dell’anima.

Distruggere gli idoli… interiori

“Non fatevi dei con il metallo fuso”, dice la Torà. Un comandamento che parla oggi più che mai. Perché il “metallo fuso” sono le nostre certezze rigide, le idee preconfezionate, le zone di comfort da cui non vogliamo uscire. Il Talmud (Avodà Zara 55a) ci avverte: non è l’idolo che è pericoloso, ma il pensiero che lo sostiene.

Dio non vuole che ci inchiniamo a convinzioni che non possiamo mettere in discussione. La fede vera è viva, aperta, disposta a cambiare. Ogni rigidità mentale, anche religiosa, può diventare una forma sottile di idolatria.

Contare i giorni per costruirsi

Durante i 49 giorni dell’Omer, tra Pesach e Shavuòt, ci viene chiesto di contare. Giorno dopo giorno, come chi semina con pazienza per vedere crescere qualcosa dentro di sé. Dal cibo degli animali (orzo) al pane degli uomini (grano), il messaggio è chiaro: diventa umano, consapevole, elevato.

Il Talmud (Menachot 66a) ci ricorda che ogni giorno è un gradino verso la maturità spirituale. Possiamo scegliere di usare questi giorni per migliorarci, aggiustare un tratto del carattere, chiedere scusa, o semplicemente… diventare più gentili.

Imparare a vedere il bene negli altri

Tra le mitzvòt più difficili, ce n’è una che è anche tra le più urgenti: giudicare favorevolmente. Pirkei Avot (1:6) ci esorta a dare il beneficio del dubbio. Quante relazioni rovinate da un sospetto? Quanti malintesi, quante parole non dette o travisate?

In un’epoca in cui il giudizio è istantaneo – nei social, al lavoro, persino tra amici – ricordarci che non conosciamo mai tutta la storia è un atto di grande saggezza e amore. Saper perdonare, anche quando è difficile, ci rende più umani e più divini.

La gioia che illumina il buio

Lag Ba’Omer arriva come una scintilla nel buio. In mezzo al lutto della Sefirà, si accende la luce di Rabbi Shimon bar Yochai, maestro dello Zohar. Non è un giorno qualsiasi: è una celebrazione della luce spirituale che resiste alle tenebre del mondo.

Anche oggi, ballare, cantare, accendere un fuoco può essere un atto sacro. È la resilienza della gioia, quella che non finge che il male non esista, ma sceglie di vedere la luce anche nei momenti difficili.

Conclusione: la santità come vocazione quotidiana

In fondo, tutto questo percorso – dalla Parashà Acharè Mot alla sefiràt HaOmer, fino a Lag Ba’Omer – è un invito a vivere con kedushà, cioè con consapevolezza e profondità. Come dice il Talmud (Berachot 17a), è beato chi lascia questo mondo con la Torà nel cuore, la bontà nelle mani e l’umiltà nell’anima.

Essere kadosh – santo – non significa essere perfetto. Significa cercare ogni giorno di diventarlo un po’ di più.

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