Emòr: Santità, servizio e trasformazione giorno per
giorno
La parashà
di Emòr (Levitico 21–24) si apre con un richiamo profondo alla santità
del sacerdozio. I kohanìm, discendenti di Aharòn, ricevono una serie
di mitzvòt che regolano la loro vita, il loro comportamento e la loro
partecipazione al culto. Anche dopo la distruzione del Bet Ha-Mikdàsh, queste
norme non sono scomparse: il loro spirito e molte delle loro applicazioni
rimangono vive.
Come spiega,
essere kohen non è solo una questione di genealogia: comporta responsabilità
spirituali permanenti. La mitzvà di “ve-kidashtò” — “e lo santificherai”
— è ancora in vigore oggi. I kohanìm vanno onorati pubblicamente:
chiamati per primi alla lettura della Torà, coinvolti nelle benedizioni (birkàt
kohanìm), e rispettati nel loro ruolo simbolico di servitori del Divino. È
un onore che appartiene a tutta la comunità, come un modo per elevare chi è
incaricato di servire Dio anche a nome nostro.
Una delle
mitzvòt più simboliche è il divieto per i kohanìm di contaminarsi con i
morti. Questo, spiega il Talmud, è un confine tra la vita e la morte, tra
la presenza divina e il mondo terreno. È il tentativo di mantenere i kohanìm
“vicini al Santuario”, anche in senso esistenziale.
Il testo del
Levitico prosegue specificando che i kohanìm devono osservare regole di
purezza, di moralità matrimoniale e di integrità fisica. Anche chi ha una
malformazione è escluso dal servizio attivo, ma non dal diritto di partecipare
ai pasti sacri. È un modo — tutt'altro che discriminante — di proteggere la
simbologia del culto. Come ci insegna il Talmud (Megillah 24b), la dignità
della persona è intatta, anche se il ruolo pubblico cambia.
Il tempo sacro e la terapia dell’Òmer
Il capitolo
23 del Levitico introduce le feste di Dio — non solo celebrazioni, ma
vere e proprie “convocazioni sante”, tappe nel cammino dell’identità ebraica.
Una delle più profonde è quella del conteggio dell’Òmer, il periodo tra
Pesach e Shavuòt.
Qui entra
l’insegnamento del documento Emor 5785, che illumina il senso del
conteggio quotidiano. Il Talmud (Menachot 66a) discute se il conteggio sia
biblico anche oggi. Secondo Rambam, lo è. Secondo Tosafot, no. Rabbenu
Yerucham, invece, propone una via intermedia: il conteggio dei giorni
è biblico, quello delle settimane solo rabbinico.
Questa
distinzione diventa, nella visione chassidica, un’allegoria potente del
percorso interiore umano. Le settimane rappresentano le emozioni profonde
da trasformare (amore, disciplina, compassione…), mentre i giorni
rappresentano la nostra capacità di scegliere come comportarci oggi,
anche se dentro sentiamo ancora confusione, rabbia o paura.
È il
principio spirituale della gestione del giorno: anche se non riesco a
trasformare tutto il mio carattere, posso non urlare oggi, non cedere
a un pensiero autodistruttivo oggi, offrire amore oggi. È qui che la
mitzvà dell’Òmer diventa uno strumento di guarigione, come raccontato
nella storia di John Nash: anche in presenza di deliri e sofferenze profonde,
possiamo restare al timone. Anche se non riesco a contare “le settimane” (cioè
a guarire tutto), posso contare “i giorni”, cioè scegliere un piccolo passo
di luce.
Giustizia, parola e responsabilità
Il Levitico
si conclude con un caso drammatico: un uomo bestemmia e viene lapidato. Il
testo non è da leggere come una condanna fredda, ma come un segnale
sull’importanza della parola. Il Talmud chiarisce che la parola crea
mondi — benedice o distrugge. E i Maestri ci dicono che le punizioni erano
precedute da ammonizioni, testimoni e tentativi di ravvedimento. Anche qui, il
principio è educativo, non vendicativo.
Segue la
legge del taglione (“occhio per occhio”), ma la tradizione rabbinica
spiega chiaramente che si tratta di compensazione, non di mutilazione.
L’obiettivo è sempre il Tikun, la riparazione. E questo vale anche per
le emozioni: ciò che non puoi cambiare in profondità, puoi almeno raddrizzarlo
nell’azione.
La santità nel quotidiano
La parashà
di Emòr, vista attraverso la lente della halakhà, del Talmud e del pensiero
chassidico, ci consegna un messaggio profondissimo:
- Santificare i kohanìm oggi significa onorare chi si
dedica al servizio divino e vivere noi stessi con dignità, anche senza
Tempio.
- Contare i giorni è più di un rituale: è un
metodo di crescita personale, giorno dopo giorno, emozione dopo emozione.
- Anche se non possiamo cambiare
tutto,
possiamo scegliere il bene oggi. E questo, secondo la Torah, basta
per iniziare a trasformare il mondo.
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